domenica 8 gennaio 2017

Versi de l'inverno (parte III)

E in questi giorni molto rigidi, nel cuore dell'inverno, ho voluto pubblicare altre venti poesie di altrettanti poeti italiani appartenenti a un tempo ormai remoto. Molti di loro si soffermano a descrivere paesaggi desolati, a volte lugubri; abbondano versi in cui compaiono uccelli di ogni tipo: corvi, aquile, passeri, gabbiani, reatini, cigni... spesso questi poveri pennuti sono sofferenti o morenti. Il mese è gennaio: il primo dell'anno ma anche, tranne qualche rara eccezione, il numero uno in quanto a giornate fredde. C'è chi parla di fiori, malgrado la stagione, che però son fioriti in anticipo, e traggono quindi in inganno, facendo pensare ad una imminente primavera. C'è chi avverte un profondo senso di solitudine e, sfogandosi, lo descrive per filo e per segno. C'è infine chi approfitta dell'atmosfera invernale per fare meditazioni esistenziali o cercare nella natura nuove "voci misteriose". I poeti sono, più o meno, sconosciuti o celebri, i soliti: Panzacchi, Graf, Pascoli, Cesareo, Oliva, Thovez, Lipparini, Pastonchi ecc. Due parole ancora su qualche poeta che oggi nessuno ricorda più: Guido Menasci, toscano, ha un po' di fama per aver scritto il libretto dell'opera "Cavalleria rusticana" di Pietro Mascagni; fu anche autore di versi, che riunì in qualche volume, come l'ottimo "Il libro dei ricordi". Salvatore Giuliano, ovviamente, non ha nulla a che vedere col tristemente noto boss siciliano, a parte il fatto che anche lui nacque in Sicilia; collaborò a varie riviste locali e pubblicò due soli volumi di versi (semplici e piacevoli) prima di morire a soli ventuno anni, come Sergio Corazzini.



DANUBIO INVERNALE
di Guido Menasci (1867-1925)

Oggi il Danubio, in corsa, nei flutti fulvi e torvi
trascina enormi ghiacci che passan rumorosi;
su i ghiacci, a frotte a frotte, stanno gabbiani e corvi
che seguono la corsa del fiume paurosi.

Gracchiano i gravi corvi, ma si senton più forti
le strida dei gabbiani con disperato accento.
Vi siete forse uniti per un seppellimento,
neri terrestri e grigi marini beccamorti?

Quale uragano in collera respinse dalla spiaggia
dove fluttua pallido un nordico oceano
questi augelli attristati dall'onda fluviale?

Nella tristezza un vago presagio gl'incoraggia:
raggiungeran domani d'un altro mar lontano,
a loro sconosciuto, la scogliera ospitale?

(Da "Il libro dei ricordi", Giusti, Livorno 1895)




ATONIA
di Enrico Thovez (1869-1925)

O falce di luna d'oro nel cielo chiaro d'inverno!
Langue laggiù in occidente, sfavilla al vespero, inalba
di un chiaror vago le nevi sui tetti colmi; alta in cielo
sopra le case, mi splende in viso, in fondo alle vie.
L'ultima neve si strugge sopra le putride aiuole,
i fili d'erba trasalgono al vento freddo, le estreme
fogliuzze secche stormiscono fra le ramaglie dei platani.
Dall'ombra, io, qui, la contemplo. In quell'ardore struggente
affiggo gli occhi miei, l'anima. Son solo: ho orrore di me.
Non vivo più, l'atonia mi ha tolto insino il soffrire!
O luna, rendimi il palpito, la mente, il cuore, lo spasimo
del tempo antico! Ch'io possa essere grande, o morire.

(Da "Il poema dell'adolescenza", Streglio, Torino 1901)




TENEBRE
di Domenico Oliva (1860-1917)

Scende la notte, e pare
Una minaccia, sopra
La terra fredda: cantano
Il funeral del sole
L'umide, immense tenebre.

Oh, le notti primiere,
Oh i primieri spaventi
Della prima progenie,
Oh dove urlanti, folli,
Quei martiri fuggirono!

Oscurità dovunque,
Freddo dovunque: cupi
Ululati facevano
Tremar l'aure ed i cori,
Le belve immani udivansi

Vaganti: era l'enorme
Sinfonia del terrore
Ch'irrompeva nell'ampio
Impero del silenzio
Suprema ed invincibile —

E le oscure montagne
E i fiumi mormoranti
Inesplicate e lugubri
Cose e i boschi e i gran boschi
Che fremevan nerissimi,

Stavan sopra e d'intorno
Agli estenuati! Oh notti!
Allor che soli, il timido
Passo per un sentiero
Che le tenèbre abbracciano

(Amplesso misterioso)
Avanziamo e il profilo
Degli alberi che ondeggiano
E l'ignoto susurro
Che per l'aere vagola,

Ed il serpeggiamento
D'un essere notturno
Di cose strane parlano,
E n'andiamo cantando
Noi, gl'indomati ipocriti,

Son quelle notti ancora,
Quelle notti infernali
Ch'improvvise risorgono
E in un sol cor risorge
Tutto il poema funebre:

Batte quel core, inconscio
Di secolar tragedia
E i secolari palpiti
Si seguono siccome
D'un folle carme i numeri.

Scende la notte, e pare
Una minaccia, sopra
La terra fredda: cantano
Il funeral del sole,
L'umide, immense tenebre.

O antica stirpe, come
Puoi sostener cotanto
Peso? Tu pur continui
A trascinar te stessa
Sulle tue glebe povere:

Invan ti schiaccia questa
Eredità a cui freme
Ogni pensier che indocile
Sfidi volgar catena!
Oh se i morti sorgessero

Tutti, tutti, dal primo
Che bagnò del suo sangue
La terra insino all'ultimo
Che, mentr'io scrivo, spira,
Tutti, tutti, bianchissima

Sterminata falange,
Per l'antico terrore
Un'altra volta attoniti,
Una seconda morte
Piangendo griderebbero.

Scende la notte, e pare
Una minaccia, sopra
La terra fredda: cantano
li fumerai del sole
L'umide immense tenebre.

(Da "Il ritorno", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1895)




GHIACCIOLI
di Peleo Bacci (1869-1950)

Su gli antichi freddi asili
de la morte, sui recenti,
dalle nere croci umili
come frange ricadenti,

come argento in molli fili,
in fantastici ornamenti
brillan penduli, sottili
i ghiaccioli iridescenti;

dal cancello del sagrato,
dal roseto calvo e solo
del tranquillo camposanto,

e dal verno lì fermato
sulle tombe, sembra il volo
d'una larga ala di pianto.

(Da "Flatus vocis", Tip. Cacialli, Pistoia 1894)




DOMENICA
di Filippo Amantea (1878-1964)

Gelo d'inverno sul mio cuore e palpita
  freddo di gelo l'aere;
Ma per la tenue purità cristallina
  tende il sol la sua porpora,

E la luce ch'è vita e che letifica
  in fronte bacia il piccolo
Tempio sacro a la Vergine ed effondesi
  pel breve spazio candida

Del sacrato che, in atto liete ed umili,
  le fedeli attraversano;
Balzando le campane le salutano
  che per la messa clamano.

Occhi di sole! mentre Febo Apolline
  fredda letizia a l'anima
Versa in obliqui dardi che si smussano
  e senza forza piovono,

Voi vi mostrate, occhi di sole, e avvampasi
  l'anima mia d'un subito:
Tale le cime tocca de gli alti alberi,
  ad incendio, la folgore. -

Candida fronte sotto chiome d'ebano,
  occhi di sole fulgidi,
A salutarle di sua pompa vestesi
  il sole a la domenica,

E il mio povero cuor sotto le folgori
  nere tue che l'accendono,
Brucia e sfavilla come d'oro cupola
  a i tramonti purpurei,

Tu che passi regale - ahi, solo un attimo! -
  del sole ne la gloria,
O Tu che regni su l'altar de l'anima
  com'ostia il suo ciborio!

(Da "Come le nuvole", Arturo Trippa, Cosenza 1905)




IL CIGNO
di Ettore Moschino (1867-1941)

II Sol, che per le vie grigie de l'aria,
il pallido invernale oro distende,
calando nella gran selva risplende
come lampada in urna funeraria.

Non grido o passo ne la statuaria
calma; non ala il marsio bosco fende.
Morte, le ninfe: sol la nebbia scende
grave ne la tristezza solitaria.

Canta un cigno su 'l lago: dolcemente
canta, ed invoca la sua bianca assente;
ma poi che tutto ne l'ombra soggiacque,

ei, reclinando il puro collo a l'acque,
e l'ali aprendo a foggia d'una lira,
stanco, l'armoniosa anima spira...

(Da "I lauri", Treves, Milano 1908)




GAROFANI IN GENNAIO
di Salvatore Giuliano (1888-1909)

Oh cinguettìo di passeri in amore
fra le rame intrecciate!
Madre Natura ha preso un dolce errore
le nevi in bei garofani ha mutate.

E così questo cespo ora sorride
a gli occhi tuoi di bimba,
mentre timido il sol da l'alto ride
e i tuoi capelli di folgore annimba.

Qual sogno mai di lirica gioconda
somiglierebbe il Vero?
Ed io smarrisco l'esser in un'onda
di luce, in fantasie vaghe il pensiero.

I garofani, rossi come il fuoco
splendono affascinanti.
Simbolo in cui de' chiaroscuri il gioco
annuncia un bene ignoto a i cori amanti.

Che importa se la nebbia ricoperse
ieri tutta la terra,
e se domani ancora, ancor, le sperse
nuvole torneranno a darsi guerra?

Il tempo, il muto dio che mai non resta
nel volubil cammino,
ci offre a una coppa iridescente questa
benigna tregua: l'attimo azzurrino.

Tutto un poema d'estasi novelle
ci canta la natura:
Ad esse volgi le tue luci belle,
mia diletta, o mia sovrana cura.

(Da "Le ore mattutine", La vita letteraria, Roma 1907)




L'INGANNO DEL GELSOMINO PERENNE
di Mario Venditti (1889-1964)

Dieciassette dell'anno: e mi saluta,
già rifiorito, il gelsomino. (O forse
dal cielo, stanca delle veglie scorse,
una stella nel nostro orto è caduta?)

E pur, quando mi diede il suo commiato
l'altra fiorita, già cadea disfatto
su per gli émbrici tutto lo scarlatto
che la vitalba aveva ricamato.

Prodigio forse della mano agreste
che, in ottobre, fa l'orto più stellante
dei giardini protesi al sol Levante
e che, di maggio, rievoca Preneste?

Non so. Capriccio della millenaria
Sfinge bizzarra che per occhi ha cieli
di gemme e avvolge i cento e cento steli
che ha per capelli nei suoi veli d'aria?

Non so né meno. Ciò che posso dire
è che mi tende il più crudele inganno
questa pianta che quasi tutto l'anno
par non sappia far altro che fiorire.

M'avea promesso: "Con i miei virgulti
autunno a primavera allaccerò".
Ma fra le gronde il turbine crosciò
con la polifonia dei suoi singulti.

Ora m'annunzia che l'inverno già
su la via dell'esilio si rimette.
Ma il calendario ghigna: "Dieciassette
dell'anno: inverno che non se ne va".

(Da "Il cuore al trapezio", Taddei, Ferrara 1921)




D'INVERNO
di Enrico Panzacchi

Nella gran nebbia canta un reatino
saltabeccando su pei nudi rami.
Siam soli soli; deserto è il cammino:
dimmi, oh dimmi che m'ami!

O almen che in una delle tue parole
io senta un lieve tremito d'amore!
Olezzerà la primavera, il sole
splenderà sul mio cuore.

(Da "Poesie", Zanichelli, Bologna 1908)




VEDESTI GIÀ DI TRA I RAMETTI SECCHI
di Francesco Pastonchi (1874-1953)

Vedesti già di tra i rametti secchi,
nel verno, al pigro sole mattutino,
per le siepi dei campi, in sullo spino
che così sta di punte irto e di stecchi,

due passeri svolar, batter dei becchi,
dare un cinguetto, via, con un inchino,
tornar, cullarsi, muovere il capino
di qua di là più che damine a specchi?

Tutto è silenzio intorno irrigidito
dal gelo, acerbo di pruina, tetro
al sole che vi stenta un roseo lume.

E v'è solo quel volo a vano invito:
e a tratti quel "tin" fragile, di vetro
che si spezzi, perduto fra le brume.

(Da "Il randagio", Mondadori, Milano 1921)




UCCELLI TETRI
di Arturo Graf (1848-1913)

Empie la cupola de’ cieli un greve
                 Vapor cinereo;
Copre gl’intermini campi un funereo
                 Lenzuol di neve.

Per l’aria gelida, sui bianchi e morbidi
                 Deserti immensi,
Trasvolan nugoli profondi e densi
                 D’uccelli torbidi.

Vulturi ed aquile, nibbii e sparvieri
                 Sinistri e torvi;
Innumerabili turbe di corvi
                 Lugubri e neri.

I vicendevoli odii si scordano
                 Volando forte,
E di fameliche strida di morte
                 Lo spazio assordano.

Con ali volano sicure e pronte,
                 Qual da presaga
Forza travolti verso una plaga
                 Dell’orizzonte.

— O lupi aerei, epe affamate,
                 Gole stridenti,
Per l’aria gelida, sfidando i venti,
                 Ove ne andate? —

— Noi lupi aerei, ventri affamati,
                 Stridenti gole,
Verso la plaga voliam del sole,
                 Dove su lati

Campi altri lupi che la natura
                 Perfezionarono,
Che han nome d’uomini, ci prepararono
                 Larga pastura.

(Da "Dopo il tramonto", Treves, Milano 1893)




SOLITUDINE
di Alfredo Mancini (?-?)

Vieni da me!... L'inverno — e tu lo sai —
è tanto triste; ed io fra queste cupe
gole alpestri mi sento tanto solo
e tanto sfiduciato.
Vieni da me!... Da quando m'hai lasciato
a l'improvviso e senza un sol consuolo,
più freddo è il casolar, su questa rupe,
e più tetro che mai.

La piccola chiesetta, là, tra i fondi
montani abissi, a mezzo diroccata,
più quasi or non si vede, e la campana
più quasi non si sente;
poi che la nebbia fitta ed opprimente
ogni orma avvolge, e, orribile peana,
del gelido aquilon l'ira implacata
par le cime sprofondi.

Ah! se vedessi, se vedessi tu
il poggio col sedile ove sovente
insieme, a primavera, un poco stanchi,
s'andava a riposare!
Sepolto ne la neve, un grande altare
or sembra che distenda i vasti fianchi
su la montagna a guardia del torrente
che non gorgoglia più.

Un giorno, or son sei mesi, don Gerola,
il curato ottantenne — lo rammenti ? —
venne a tenermi un po' di compagnia.
Tosto di te mi chiese...;
io tacqui...; ma quand'egli alfin comprese
che te n'eri, il dì innanzi, andata via,
ebbe singulti assai più commoventi
di qualsiasi parola.

Poi prese a confortarmi, assicurando
che a l'amor mio saresti ritornata:
— Oh! vedrete — dicea — vedrete, e presto,
s'ella dovrà arrivare! —
Ma scorgendo le lagrime sgorgare
giù dal mio ciglio sconsolato e mesto,
scotea la bianca testa addolorata,
anch'egli lagrimando.

Ah! che tristezza! che tristezza, amore,
tu sapessi, è mai qui!... Le mie giornate
sembran secoli..., e mai, quassù, salire
non vedo anima viva.
E la notte?... Ch'io vegli, o sogni, o scriva,
te vedo ognor nel lento mio soffrire;
e al rievocar de l'ore, ahimè! passate,
vie più mi struggo in cuore.

Vieni da me!... Perchè farmi morire
di spasimi cosi, se tanto bene
da morirne ti voglio?... Ah! vieni, vieni...,
ridona a me la vita
che mi manca da quando sei partita!
Fa che l'anima mia si rassereni,
e che il mio sangue torni ne le vene
ancora a rifluire!...

(Da "Dall'urna dei ricordi", O.P.E.S., Torino 1922)




IL PICCOLO MORTO
di Giovanni Alfredo Cesareo (1860-1937)

Nel viale immenso e vacuo
Schiara l'alba di gennaio:
Semispenti in fila guizzano
All'impeto del rovaio
I fanali, che s'alternano
Co' platani dispogliati:
Trascorre nell' aria il brivido
Di tutt'i sogni sognati.

Dietro al pilastro d'un portico
Giace addossato un bambino:
(Le campane par che piangano
Rintoccando a mattutino)
Ricurvo, stecchito, immobile,
Con la faccia paonazza
Fra i ciruffi, che gli pendono
Molli di gelida guazza.

Le cenciose braccia agli omeri
Strettamente egli convelle,
E dell'unghie violacee
S'uncina le nude ascelle:
Spiccia il sangue dalle tumide
Falangi de' piedi inerti:
Gli occhi invadono lo spazio
Bianchi, stranamente aperti.

Giunge un legno con lo scalpito
Stracco d'un vecchio ronzino:
Ne discendono due guardie
E ne balza il vetturino.
— Morto? — Morto! — Su! — Lo portano
E l'adagiano nel legno:
Guata il vetturino, e mastica
Sdegno e cicca, cicca e sdegno.

— Questo e il terzo che mi capita.
Dico bene, un vagabondo:
I rampolli de' sustrissimi
Non van mica per il mondo
Così soli, sbrici e piccoli!
Hanno troppa educazione
Per girar di notte, a risico
Di buscarsi una flussione.

— Sferza! — Eh via, che non c'è furia!
Fa il vetturino montando
In serpe. Scruta il cadavere,
Si leva il pastrano, e quando
Gliel'ha steso fino all'esile
Viso ormai nell'ombra assorto,
Dice: — Là, che più non abbia
Freddo, almeno ora ch'è morto!

(Da "Poesie", Zanichelli, Bologna 1912)




TRAMONTO DI GENNAIO
di Guido Marta (1889-1960)

Ecco, che il campanile, arguto e pronto,
schiude il suo becco lustro di metallo,
e, rizzandosi dritto come un gallo,
con la cresta veimiglia di tramonto,

lancia un baldo richiamo al suo pollaio
di case bianche accocolate intorno:
mentre — bimbo di rosa, ignudo, — il giorno
muor tutto intirizzito dal rovaio.

(Da "La neve in giardino", Il Giornale dell'Isola Letterario, Catania 1922)




NOTTE DI GENNAIO
di Romualdo Pantini (1877-1945)

Sfioccasi una cortina nuvolosa
intorno della luna all'aureo lago:
ed ella par vi nuoti quale imago
di bimba dentro l' acqua sonnacchiosa.

E la mesta campagna ed ogni cosa
della vita è sì lunge all'occhio vago
che stranamente d'essere mi appago
ombra che vive sol perché non posa.

Poi la brezza risvegliasi: l'estreme
foglie rabbrividiscono stormendo
qual ruscello che il suo corso ripigli.

È la vita, è la vita. Al cor che geme
e si chiude nel gelo io non mi arrendo.
Voglio che un fior di gioia s' invermigli.

(Da "Antifonario", L'Arte del libro, Vasto 1905)




D'INVERNO
di Vittorio Locchi (1889-1917)

Tu dove sei, mia bella? Sul cuore ove un tempo dormii
forse la fata Mab or ti contesse i sogni?

O framezzo lo stuolo dell'anatre azzurre, pel cielo
voli in cerca di sole? O dormi e nulla pensi?

Me non il sonno accoglie sull'omero pigro, o mia bella,
nelle squallide notti, solo d'inverno. Ed ora

che nel manto stillante, dai fumidi stagni si leva
freddo, cinereo il giorno: con gli occhi stanchi guardo

una fila di pioppi che tremano ignudi, una gazza
che via passa gracchiando. Guardo dai gioghi scendere

nuvole nere, tacite; sì come nei foschi mantelli,
preti che vanno al piano da' lor covi de i monti.

(Da "Elegie del sereno", L'Eroica, Milano 1921)




SERA D'INVERNO
di Luigi Grilli (1858-1939)

Su l'ampia distesa di nevi recenti
profonde il tramonto viole;
lontano, tra i picchi, nel cielo taglienti,
discende magnifico il sole.

Ed ecco la valle s'infosca; riflessi
metallici han l'acque del fiume;
il mar si solleva dai cupi recessi
e d'iridi ingemma le spume.

La cuspide aurata dell'agile torre
s'accende d'un vivo bagliore,
e l'ultimo riso di luce trascorre
nel vespero, palpita e muore.

Salute, o divino benefico sole,
del mondo sei l'anima, tu!
Per te degli umani s'allieta la prole,
tu abbelli ogni cosa quaggiù.

Ma se per breve ora vien meno il tuo raggio,
la vita è una trepida ambascia;
il suolo diventa deserto, salvaggio,
se, gelida, l'ombra lo fascia.

E l'ombra dispiega già i negri suoi veli;
nell'aere piange una squilla;
regina dei mesti, nei limpidi cieli
già placida Venere brilla.

(Da "Lauri e mirti", Giusti, Livorno 1908)




PRIAPO
di Giuseppe Lipparini (1877-1951)

Quando verdeggerà ne' solchi il grano
ancora a la novella primavera,
verran gli amanti in gaudiosa schiera,
a te porgendo supplici la mano.

A te di lor fecondità guardiano
alzeranno di fiori una lettiera,
onde tu possa a la vegnente sera
mescer baci a le ninfe e amore sano.

Or l'erma tua pallida e nuda giace
ne l'invernal rigidità, Priapo;
l'arguto ceffo sembra domandare:

"O quando cesserà questa mia pace?
Ora la brina m'inghirlanda il capo
e non mi noia con il suo pregare ..."

(Da "Le foglie dell'alloro", Zanichelli, Bologna 1916)




VEGLIA DI PENSIERO
di Olindo Malagodi (1870-1934)

Notte d'inverno: cupa sfavillante
di un freddo polverio di diamante;
che a gli stanchi veglianti occhi disveli
ignoti abissi e nuovi astri ne' cieli;
notte che affacci al nostro breve lito
le uranie immensità de l'infinito;
svolgi avanti al nostro essere fuggente
la cupa eternità tutta fluente
d'astri innumeri in loro antiche frotte;
notte siderea, muta immensa notte,
erma notte del vigile pensiero!

Sotto il raggiante, immobile mistero
io veglio, io vado fra le cose assorte
in un'estasi rigida di morte;
e sotto il passo mio la intirizzita
zolla che chiude in sé l'estrema vita,
l'eterna morte, lugubre rimbomba
con l'eco vuota di un'antica tomba;
eco, lamento del sepolto mondo,
che nei silenzi gelidi, dal fondo
dei mille morti secoli risale
interrogando l'erma notte astrale,
sperduto, errante per l'immenso vano,
poi si rifugia dentro il cuore umano...
E stretta ne le fibre aride, chiusa
in larve immote, in pigre vene infusa,
sospinta ormai su la frontiera estrema
de l'esser suo la vita esita, trema
fuggitiva... La fonte, ecco, s'arresta
in sua fuga sospesa; la foresta
stecchita avventa immobile le braccia
contro ad una invisibile minaccia;
più lunge, sovra i lividi orizzonti,
vedette antiche de la morte i monti
mantengon la lor veglia millenaria;
senza un ronzìo, senza un alito l'aria
giace: soltanto nel silenzio inane
s'odon cupe, perpetue, lontane
le cateratte tue. Tempo, che vai
oltre ogni sorte, e non t'arresti mai!

Sotto noi la tua tomba, o morta terra,
che i tuoi spenti destini cupa serra;
su noi, lugubre sfavillante, il gelo
de l'infinito, ed il mister del cielo.

Spirito umano, o tu scolta perduta
entro la immensa indifferenza muta!
O cuore umano, triste pellegrino,
col solitario tuo breve destino,
solo ne l'infinite compagnie
de l'essere per l'erme erranti vie!
Tu superstite estremo, o stanco cuore,
oltre la vita che quaggiù ti muore,
quali al tuo sogno nuove traccie indaghi
entro l'immenso ignoto, ove s'appaghi,
o spirto, o cuore che non vuoi morire,
la implacata tua ansia d'avvenire?
Quale ultimo responso a questi grandi
cieli che ti ravvolgono domandi,
che al tuo destino ti consoli? O quale
dal profondo del tuo dolor mortale,
dal tuo fiammante vertice d'amore,
messaggio estremo vuoi gettare, o cuore,
che ne l'immensa notte si rinfranga
d'eco in eco, e perpetuo rimanga
dietro il tuo solco labile vanente?

Piegan, scendono cupi a l'occidente,
nel lor destin, con l'immortal fatica
gli astri giganti su la traccia antica;
e travolgendo l'atomo che pensa,
tacita scorre la corrente immensa
e passa e va; ma nel presentimento
del fuggente supremo suo momento,
lo spirito s'affaccia su le soglie
de gli abissi inscrutabili; raccoglie
entro l'essere suo tutto il mistero,
e mutandolo in lucido pensiero,
lo leva al ciel, meteora che fenda
improvvisa la immota ombra, ed accenda
del suo raggio l'attonito minuto:
splende, e chiamando fulgida il saluto
d'astri, di sguardi, di cuori fraterni
passa, e s'immerge nei silenzi eterni.

(Da "Un libro di versi", S.T.E.N., Torino 1908)




VOCI MISTERIOSE
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

La nebbia gemica, tira una buffa
ch’empie di foglie stridule il fosso;
lieve nell’arida siepe si tuffa
    il pettirosso;

sotto la nebbia vibra il vocale
canneto un brivido quasi febbrile;
sopra la nebbia lontano sale
    il campanile;

passo, e precedemi sul limo un gaio
stormo di passeri quasi irridendo,
mentr’io nel plumbeo ciel di gennaio
    l’orecchio tendo.

Tendo l’orecchio nel faticato
di pensier torbido cielo d’inverno,
in cui forse Eschilo meditò il fato,
    Dante, l’inferno,

in cui la pallida strega — e i ghiacciai
con rombe assidue rompeansi a tratti —
dubitò il termine venuto omai
    scritto ne’ patti.

Come la pallida strega, l’orecchio
tendo, anch’io, pallido, d’antichi eventi
a voci e strepiti, che il mondo vecchio
    canta tra i venti.

Non è la nebbia che per la piana
via le pozzanghere trepida batte,
ma là tra l’aere dubbio una strana
    voce combatte:

pari d’Eolie lire al concento
nell’Apollinee splendide gare,
nuova Olimpiade sui monti sento
    rumoreggiare.

Un grido fervido, lungo, echeggiante
Pan manda il postumo, Pan che non muore,
Pan per le cedue boscaglie errante
    Dio vincitore.


(Da "Poesie varie", Zanichelli, Bologna 1912)


John Henry Twachtman, "An Early Winter"