venerdì 1 luglio 2016

La montagna in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

La montagna è certamente una delle mete preferite dai villeggianti; e per trovarsi davanti a spettacoli di una bellezza e di una suggestività non paragonabili, basta rimanere nei confini della nostra stupenda penisola. Le catene montuose italiche infatti, posseggono tesori spesso sottovalutati o, perlomeno, non abbastanza considerati. Alcune località alpine in particolare, possono considerarsi dei veri e propri paradisi terrestri. Le dieci poesie che seguono questo preambolo descrivono soprattutto le estasianti atmosfere alpestri che è possibile vivere e godere in determinate stagioni dell'anno. Più d'una volta si fa riferimento al silenzio: caratteristica fondamentale di certi boschi montani, non rintracciabile in altri luoghi terrestri, come scrisse Dino Buzzati in "Il segreto del bosco vecchio" («Ma due o tre volte, quella notte, ci fu anche il vero silenzio, il solenne silenzio degli antichi boschi, non comparabile con nessun altro al mondo e che pochissimi uomini hanno udito»).




SULLA STRADA DI CHAMOIS
di Italo Mario Angeloni (1876-1957)

Un dì, dai verdi prati di Fierna
mentre al mattino le finestre aprivi, —
ché con sollecitudine materna

venìa l'aurora carezzando i clivi, —
te scorgemmo, Chamois, nera distesa
di casolari fra gli argentei rivi.

Là saliremo: fu la muta intesa
del mio cuore e del suo, che gli occhi in alto
levò dalla carrozza alla tua chiesa.

Ed oggi alfine verso il cheto spalto
pellegriniamo a un tuo desco frugale
per la scagliata costa di basalto.

Come un pensiero che la mente assale,
l'avvolge inavveduto e la costringe
di sogno in sogno, dolcemente eguale,

così la via che innanzi si sospinge
per i fianchi montani a sé ne tragge
verso il romito culmine che attinge.

Sosta, trasogna chi invocò da piagge
tumultuanti di città sonore
pace di solitudini selvagge.

Pascendo pure avidità nel cuore
sofferse il male, nel soffrir, sincero,
finché a salvezza non lo volse amore.

Ora l'Alpi egli ha in faccia e sul sentiero
montano, bianca, tra l'azzurro e i fiori
sali dolce, o Maria, con pie leggero

regina della luce e dei colori.

(Da "Il conquistatore", Lattes, Torino 1910)





SILENZIO SUI MONTI
di Gaetano Arcangeli (1910-1970)

Oggi il silenzio dura.
Non voci ciarliere di campane,
di campane senz'anima,
voci di povere bestie umane
malinconiche:
non gridi né voli né stridi
né canti.
Non piccole voci umane:
non voce del cuore
che immalinconisca la pace
di oggi.
La pace di oggi non fugge
né muore
uccisa da piccole voci;
grande voce divina che ascoltiamo
senza neppur respirare.

(Da "Dal vivere", Testa, Bologna 1939)





LA VALLE PERDUTA
di Alfredo Baccelli (1863-1955)

È una valle perduta in mezzo ai ghiacci
Che nessuno vi può mettere il piede.
Se un cacciatore, che non presta fede
Alla leggenda strana,
Tenta il negato varco e vi s'indugia,
La nebbia cala, con sottil malia
L incanta, lo confonde, lo disvia:
Per sempre l'allontana.

Di pini solatii la valle odora,
Mentre fischian marmotte, e bianche lepri
Fra rododendri scherzano e ginepri.
Pendono i rosei pomi
Le prugne nere e le ciliege in fuoco:
D'oro, di lapislazzuli e d'argento
Fiorisce il prato, e squilla alto un concento
Sotto i frondosi domi.

La notte, dove i rigidi cipressi
Levan, come colonne di basalto,
I neri tronchi in alto, in alto, in alto,
Verso il bruno zaffiro,
Che par si fonda al palpito degli astri,
Le fate, bianche più di bianche nevi
E come nebbie vanescenti e lievi.
Siedono tutte in giro.

V'è la pensosa e taciturna figlia
Del Passato che dorme e non ritorna,
E con le gemme dell' Inganno adorna
Quella de l'Avvenire:
V'è la figlia del Sogno che sospira.
La figlia della Gioia che non pensa,
E quella de la Fede che dispensa
La forza di morire.

Dagli occhi verdi come lo smeraldo
Raggiano per la notte un sottil lume,
E piano piano al pallido barlume
Va di dolcezza un canto.
Come un ricordo caro o una speranza.
Acque e venti lo portano lontano:
Lo portano dov'è il dolore umano.
Dov'è la morte e il pianto.

(Da "Alle porte del cielo", Zanichelli, Bologna 1921)





MALOIA
di Giovanni Bertacchi (1869-1942)

Io son salito all'umida e tardiva
primavera dell'Alpe: al mesto prato
io vidi il verde che ricompariva
quale il novembre ve l'avea lasciato.

Cinque mesi di neve! Or nel crucciato
mattin di giugno, dalla val saliva
e pioggia e bruma e vento: un tormentato
fumar di larve sulla fosca riva.

I monti, intorno, erano bianchi ancora.
Varia così, quella scena parea
la ruina immortai d'un verno stanco...

Là, verso Sils, un monte tutto bianco
pallidissimamente rilucea
come nel nimbo d'una fioca aurora.

(Da "Liriche umane", Libreria Editrice Nazionale, Milano 1903)





VILLAGGI ALPESTRI
di Antonio Cippico (1877-1935)

Oh su le verdi aeree pendici,
ne l'ombra della bianca alpe od in vetta,
piccola casa e piccola chiesetta,
che de l'infanzia a i dì, m'ebbi felici!

Giuoco di bimbo, allora! ora, sospiro;
qual vi riveggo, o lindi ermi villaggi,
cuspidi aguzze e bianchi romitaggi,
tetti d'ardesia, fumiganti in giro!

Natività novella d'infantile
innocenza! ne 'l cuor vecchio il miraggio
de 'l trastullo d'allora évoca il maggio
sfiorito de 'l mio cuor primaverile.

Come la casa, dunque, e la chiesetta
d'allora, che fiorir ne 'l mio dominio
di bimbo, or sorgon, qual per vaticinio
antico, i pii villaggi a l'alpe in vetta!

(Dalla rivista «Nuova Antologia», aprile 1904)





DOLOMITI
di Antonia Pozzi (1912-1938)

Non monti, anime di monti sono
queste pallide guglie, irrigidite
in volontà d'ascesa. E noi strisciamo
sull'ignota fermezza: a palmo a palmo,
con l'arcuata tensione delle dita,
con la piatta aderenza delle membra,
guadagnamo la roccia; con la fame
dei predatori, issiamo sulla pietra
il nostro corpo molle; ebbri d'immenso,
inalberiamo sopra l'irta vetta
la nostra fragilezza ardente. In basso,
la roccia dura piange. Dalle nere,
profonde crepe, cola un freddo pianto
di gocce chiare: e subito sparisce
sotto i massi franati. Ma, lì intorno,
un azzurro fiorire di miosotidi
tradisce l'umidore ed un remoto
lamento s'ode, ch'è come il singhiozzo
rattenuto, incessante, della terra.

(Da "Parole", Garzanti, Milano 1998)





MONTAGNA
di Giorgio Orelli (1921-2013)

Giungo dove non ronzano i beati,
in questa ganna di pieno silenzio.
Le gallinette stanno immobili
con i loro colli di pietra
e la marmotta uscita al primo sole
non teme d'essere uccisa
né fischierà.

Nessuno annulli la montagna,
ora, leggera e come costruita
con le carte da gioco dell'infanzia.

(Da "Poesie", Meridiana, Milano 1953)





SILENZIO ALPESTRE
di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (1871-1919)

Pensier che muto in sogno il cuor m'immaga
quando a Settembre l'aria mattutina
già tempera l'Estate, e il ciel affina
di un nitido languor ch'entro dilaga.

Oh allor ripide ascese! Allor vagare
da un balzo un ermo fluttuar di monti
tra l'infinito!; e scrutar borghi e ville,
e città curioso immaginare
ai remoti biancor' de gli orizzonti.

E lassù coglier soffi di tranquille
voci, come a lor riva: eco di squille,
tinnir di mandre: ed un zirlìo di grilli;
grilli de l'Alpe: da cui par zampilli
una pace di mondi altri presàga.

(Da "Sonetti e poemi", Traversari, Empoli 1910)





SULL’ORTOBENE
di Sebastiano Satta (1867-1914)

Meriggiano le pecore e i pastori.
Elci e felci non fremono a una stanca
Ala di vento; il mare si spalanca
Da monte Bardia fino a Galtellì.

L’ombra di un volo e un grido di rapina:
L’aquila. Con un dondolìo lento
Si rimescola il branco sonnolento:
L’ombra dilegua in seno al mezzodì.

(Da "Canti barbaricini", La Vita Letteraria, Roma 1910)





ASSENZIO
di Andrea Zanzotto (1921-2011)

La deserta stagione
nell'acqua dei cortili
le sue gioie scompone
precipita dai clivi.

Verso i monti delle alpi
torna azzurro ed assenzio
di venti, torna ai campi
la sagra del silenzio.

E il tuo freddo rimpianto
sta sui vacui confini
contro il porpureo vanto
dei mosti e dei giardini

mentre l’astro crudele
dalle attardate sfere
rigèrmina e fedele
cresce nel suo potere.

Sigillo augusto, degna
fine, voto profondo,
spada che a morte segna
per sempre il cielo e il mondo,

delle tenebre alunno
che impietrisci l’aurora!
Nell’ombra dell’autunno
il chiuso bosco odora.


(Da "Dietro il paesaggio", Mondadori, Milano 1951)



Konrad Petrides, "The Rax mountain"

mercoledì 29 giugno 2016

Le spiagge in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Giugno, luglio, agosto e settembre: tempo d'estate, di vacanze e quindi di spiagge. Come è noto, gli italiani, dovendo scegliere un luogo dove andare in villeggiatura, tra montagna, campagna e mare preferiscono quest'ultimo; perciò si spiega l'affollamento delle spiagge italiche: piene di fascino e di svaghi, occasione unica per abbronzarsi, divertirsi e alleviare il malessere causato dall'eccessivo caldo. Ma, se si vuole descrivere il contenuto delle dieci poesie sottostanti, è facile notare che raramente si respira quell'atmosfera spensierata e piacevole che spesso è presente sulle spiagge estive nostrane; in questi versi c'è, quasi sempre, molta malinconia; si parla infatti di spiagge di fine estate o di primo autunno, quando questi luoghi sono ormai stati abbandonati dai villeggianti; altrove si parla di spiagge che hanno visto scene di guerra, oppure di spiagge lontane... Le ore non sono quelle in cui questi posti sono maggiormente affollati, bensì le ore serali: proprio perché, quando sui lidi non c'è più nessuno, i poeti riescono a volare più alto con la fantasia, e trovano pensieri, sogni, immagini, figure che possano aiutarli a creare versi altrimenti impossibili. Sono, insomma, le spiagge della poesia.   





SPIAGGIA
di Gaetano Arcangeli (1910-1970)

Non piove fuoco più su questa landa
di giacenti, ove tento ravvisare
un tormento di vita, ove mi guida
il silente Virgilio della mente...
Tutto è franato a una mite catastrofe
di destini e di secoli, nel suono
di quest'onda perpetua, sempre l'ultima...

(Forse sommessi ridon fra le tende
dell'intralcio di un passo, nella rena,
che alto li rasenta, di un vigile
occhio che inquieto volge qui estranei
pensieri, naufraghi da alte bufere...)

(Da "Solo se Ombra a altre poesie", Mondadori, Milano 1954)





MARINA D'OTTOBRE
di Giorgio Bassani (1916-2000)

Che la pioggia dilavi il cielo, e il sole
basso d’autunno vermiglio sfavilli,
viola si curverà la spiaggia al lieto
urto del mare.

E andremo per la bruma lieve, soli,
nel sonno che dalle verdi e segrete
risacche fuma: sulle dune brilla
in pace il faro.

(Da "L'alba ai vetri", Einaudi, Torino 1963)





SPIAGGIA DI SERA
di Giorgio Caproni (1912-1990)

Così sbiadito a quest’ora
lo sguardo del mare,
che pare negli occhi
(macchie d’indaco appena
celesti)
del bagnino che tira in secco
le barche.

Come una randa cade
l’ultimo lembo di sole.

Di tante risa di donne,
un pigro schiumare
bianco sull’alghe, e un fresco
vento che sala il viso
rimane.

(Da "Come un'allegoria", Degli Orfini, Genova 1936)





RICONOSCIMENTO
di Bartolo Cattafi (1922-1979)

Verso le dodici di oggi
venticinque settembre settantuno
sulla spiaggia chiamata Marchesana
nel golfo tra i due capi
di Tyndaris e di Milae
trovo - bianca bombata
doppiamente bordata di marrone
d'ottima fattura siciliana -
una conchiglia che fu mia piastra
di riconoscimento
la prima volta
quando andavo per mare combattendo
aspettando la nebbia della morte
ed ora chi si ricorda di che tipo
fosse la mia anima
se cartaginese o romana.

(Da "L'aria secca del fuoco", Mondadori, Milano 1972)





Da "SPIAGGE"
di Emilio Jona (1927)

Ritorna a casa ogni vecchia signora
seduta su ispido cemento, lontano
brillano lampare
gli innamorati soltanto vivono
a scaldare coi baci l'umida oscurità.

Io pure avrei amato camminare
con una ragazza di nome...
inaccessibile ragazza, perduta alle intimità,
ma gli alberghi si sono vuotati d'un fiato
come bicchieri di ubriachi
le ragazze sono fuggite verso accaldate città
è rimasta la sabbia soltanto nelle mani,
umido stampo delle dita, le cabine
perse ai vestiti, ai colori del mattino
e sono tornato a me solo
come si torna la sera
di gente caduta.

Sul vetro troppe volte era scritta
un'immagine per essere vera.

(Da "Tempo di vivere", Mondadori, Milano 1955)





SULLA SPIAGGIA
di Eugenio Montale (1896-1981)

Ora il chiarore si fa più diffuso.
Ancora chiusi gli ultimi ombrelloni.
Poi appare qualcuno che trascina
il suo gommone.
La venditrice d'erbe viene e affonda
sulla rena la sua mole, un groviglio
di vene varicose. È un monolito
diroccato dai picchi di Lunigiana.
Quando mi parla resto senza fiato,
le sue parole sono la Verità.
Ma tra poco sarà qui il cafarnao
delle carni, dei gesti e delle barbe.
Tutti i lemuri umani avranno al collo
croci e catene. Quanta religione.
E c'è chi s'era illuso di ripetere
l'exploit di Crusoe!

(Da "Diario del '71 e del '72", Mondadori, Milano 1973)





A MAGGIO IN SPIAGGIA
di Nico Orengo (1944-2009)

A Maggio in spiaggia
Maria cambia faccia.
Il tempo lieve, minuscolo a punti di neve,
il ristorante con pesci e fiori accogliente...
Ci fosse musica sarebbe niente,
perché a parlarti mi viene da ingoiarti.

(Da "Narcisi d'amore", Guanda, Parma 1995)





LA SPIAGGIA
di Vittorio Sereni (1913-1983)

Sono andati via tutti -
blaterava la voce dentro il ricevitore.
E poi, saputa: - Non torneranno più - .

Ma oggi
su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
quelle toppe solari... Segnali
di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.

I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe di inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
                                                 Non
dubitare, - m'investe della sua forza il mare -
parleranno.

(Da "Gli strumenti umani", Einaudi, Torino 1965)





DALLA SPIAGGIA
di Teresah (pseud. di Corinna Teresa Ubertis, 1877-1964)

Quando la sera colle dita d'oro
ti foggia al capo costellazioni
in corona di luce, ecco, m'appari.

Sali a specchio dell'onde: ài nel tesoro
degli occhi il radiar di visioni
che non so, l'ombra degli ignoti mari.

Freme il tuo sogno, la tua vela freme
da sconosciuti aneliti agitata,
porta la nave tua carichi d'ale...

Non io teco verrò a le rive estreme
onde mi chiami, per la mia placata
anima degna di un sogno immortale!

Naviga verso i regni del mistero,
bianco nocchiero: a me non diè la morte
alate vele per varcar le soglie.

Dalla spiaggia solinga, prigioniero
spirito, guardo lontanar le morte
speranze nella notte che m'accoglie.

(Da "Nova lyrica", Roux & Viarengo, Torino 1904)





SPIAGGIA
di Diego Valeri (1887-1976)

Mare, mi basta il tuo canto fondo,
la tua immensa voce fanciulla
che pare nata adesso dal nulla,
nel fresco mattino del mondo.

Non ti vedo: vedo il bell'oro
opaco della sabbia distesa,
e una fascia di cielo accesa
sopra l'orizzonte sonoro.

Ma tu sei là, respiro il tuo fiato
ch'à il sapore di tutta la vita...
E forse in quest'attimo è uscita
Venere santa dal tuo flutto salato.


(Da "Poesie", Mondadori, Milano 1962)



Georges Lacombe, "La baia"

domenica 26 giugno 2016

Poeti dimenticati: Argia Castiglioni Vitalis

Nacque a Rovigo nel 1855 e ivi morì nel 1933. Autrice di vari volumi poetici tra la fine del XIX secolo e il primo ventennio del Novecento, ebbe anche degli estimatori autorevoli come il poeta Pompeo Bettini, che, quando uscì la sua prima raccolta, soprattutto per alcuni suoi versi "impegnati", la paragonò ad Ada Negri. Sebbene non ebbe la fortuna della scrittrice lombarda, le sue poesie, pienamente inserite nel solco della tradizione, non sono da disprezzare.




Opere poetiche

"Non invano", Fratelli Drucker, Verona 1896.
"Ultime voci", Tip. Corriere Del Polesine, Rovigo 1914.
"Patria", Officine grafiche Corriere del Polesine, Rovigo 1915.
"Tutta l'anima", Tip. Corriere Del Polesine, Rovigo 1920.
"Poesie", Cappelli, Bologna-Rocca S. Casciano 1934.




Presenze in antologie
"Dio borghese", a cura di Adolfo Zavaroni, Mazzotta, Milano 1978 (pp. 178-179)




Testi

ROSAJO MORTO

Ho atteso invan le profumate rose:
morto è il rosajo, il rosajo gentile.
A le radici perfido, le ròse
                     un bruco vile.

Vennero indarno aprile e maggio. I morti
ahi! non ridestan miti aure tepenti.
I vili bruchi son spesso i più forti:
                     limano lenti.

Io, con tristezza, contemplai le fronde
aride, ignude, senza umor vitale.
Così talor ne l'uman cor s'asconde
                     bruco fatale

che le speranze e le dolcezze uccide,
e de la vita i tessuti disperde...
Morto è il rosajo. Ei più di fior non ride
                     né più rinverde.

(Da "Non invano")

martedì 21 giugno 2016

La solitudine in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Se nell'Ottocento il malessere causato dalla solitudine trovava conforto in dolci malinconie, nel Novecento l'essere umano solo prova soltanto spiacevoli sensazioni e non riesce a percepire vie di fuga, consolazioni o giustificazioni tali da alleviare il proprio dolore. Un grande poeta quale fu Salvatore Quasimodo riuscì, in soli tre versi, ad esprimere perfettamente la condizione esistenziale dell'uomo moderno, affetto da una solitudine cronica causata dal tipo di società in cui è costretto a vivere, dominata dal capitalismo: Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera. E che dire del primo secolo del secondo millennio? Ai posteri l'ardua sentenza.




SOLITUDINE
di Attilio Bertolucci (1911-2000)

Io sono solo
Il fiume è grande e canta
Chi c’è di là?
Pesto gramigne bruciacchiate.

Tutte le ore sono uguali
Per chi cammina
Senza perché
Presso l’acqua che canta.

Non una barca
Solca i flutti grigi
Che come giganti placati
Passano davanti ai miei occhi
Cantando.

Nessuno.

(Da "Sirio", Minardi, Parma 1929)





MEDITAZIONE
di Gustavo Botta (1880-1948)

Ahi!, cieca solitudine terrena!
Ciascun vi è solo con il suo dolore
sempiterno ed alcuna gioia effimera.
Anche il poeta: armonioso spirito
che, sperso tra le genti mute, parla
e in questa cupa notte accende stelle.

(Da "Alcuni scritti", Ariel, Milano 1952)





CONDIZIONE
di Giorgio Caproni (1912-1990)

Un uomo solo,
chiuso nella sua stanza.
Con tutte le sue ragioni
tutti i suoi torti.
Solo in una stanza vuota,
A parlare. Ai morti.

(Da "Poesie 1932-1986", Garzanti, Milano 1989)





SOLITUDINE
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Sogno di fioca riva: cielo sorto
dal trapelato amore dell'estreme
solitudini chiuse in uno smorto
lume tranquillo. Ed il silenzio teme

di muover foglie, in alito persuaso
nel declivio già molle del profondo.
Ora s'adagia nell'oblio, nel caso
d'una felicità remota, il mondo.

Dimenticato mi rivela il vento:
addormentato sul mio corpo stretto,
penetro in rami di freschezza il lento
approssimarsi rigido del petto.

Tutta la terra è nel presagio attento
del mio silenzio, in un idillio puro:
sogno di morte estatica, convento
di selve trattenute lungo il muro.

(Da "Poesie 1929-1941", Mondadori, Milano 1961)





ASPETTI DELLA SOLITUDINE
di Aleardo Kutufà d'Atene (?-?)

Persiane chiuse
vicoletti morti,
chiostri deserti
giardini addormentati,
pianoforti
strimpellati
da mani di fanciulle
malate di clorosi,
mattini inerti,
meriggi silenziosi;
nel tempo d'estate
pallide tende alzate
su le facciate infrante;
qualche raro passante;
sui palagi e su le chiese
zone accese
di luce di vario colore,
zone violacee d'ombra,
vapore
saliente
che il dileguar de l'ore
sposta lentamente.
Languore
provinciale
dell'aria dolente,
quiete domenicale
delle vie silenziose!
Quanta dolce mestizia
esalano le cose!
Spiar l'ombre dell'ore
su le meridiane,
ascoltar le maliose
elegie delle campane,
veder salire in cielo
nuvole lontane
e vederle vanire
tra amori di silenzio!
Sentirsi
come in esilio,
nel lentissimo giorno!
Guardarsi d'intorno
per essere più solo.
E sentirsi nel duolo
perire
di languore
rimpiangendo l'amore,
la giovinezza, la fede,
tutto ciò che fu invano
e che la vita
ha distrutto.

(Dall'antologia "L'Adunata della poesia", Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo 1929)





 L'UOMO COL CANE
di Francesco Pastonchi (1874-1953)

Ogni sera, quando rincaso,
lo incontro. È un signore
molto lindo,
in perpetuo lutto,
solo, con un cane
color tamarindo sbiadito.
Ha un viso distrutto,
indefinibile, sliso,
vuotato di sguardo,
con un immoto sorriso,
come domandasse scusa
all'aria
d'ingombrarla con la sua persona,
delusa.
Non fosse così persuaso
di essere nulla,
si direbbe ch'è un servitore
di riguardo
che meni ai quieti divaghi
il cane della vecchia padrona.
Ma lui non è che il suo cane.
Non è nemmeno più stanco:
questa vita bella
non può fargli più male.
È il cane che lo fa camminare,
lo tira con la cordicella,
un poco di fianco,
dall'orlo del marciapiede,
come si tira da riva
una zattera lungo un canale.
Lui non guarda, non vede:
vive come niente viva
al di là del suo cane
color tamarindo sbiadito.
Gli occhi non c'è caso che li alzi:
passi lieve una fanciulla
bellissima in un nimbo d'odore,
o passi fragoroso un traino,
sempre li tiene bassi:
come uno che appena s'appaghi
a le briciole del convito.
Per lui non c'è più cose nuove.
Curvo, come sotto uno zaino,
muove le sue gambe flosce:
i suoi piedi paiono scalzi
come i piedi dei morti
che non fanno rumore.
Ho chiesto a tutti i vicini:
nessuno lo conosce.
Certo è di un altro quartiere,
e vien qui a passeggiare
questa via solitaria
tutta villette e giardini
pieni di uccelli.
C'è tanto riposo
dalla città furibonda,
e il cane ha tanti cancelli
da odorare.
Vorrei fermarlo, e non oso.
Un giorno, che mi son mosso
risoluto a sapere
chi fosse, è svanito
(ma dove? ma dove?).
Vorrei parlargli, e non posso.
Ho terrore che sia...
ho terrore che mi risponda
con la voce mia.

(Da "I versetti", Mondadori, Milano 1931)





LAVORARE STANCA
di Cesare Pavese (1908-1950)

Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest'uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.

                     Ci sono d'estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest'uomo, che giunge
per un viale d'inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c'è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.

Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s'incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c'è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest'uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.

 (Da "Lavorare stanca", Einaudi, Torino 1943)





SOLITUDINI
di Salvatore Quasimodo (1901-1968)

Una sera nebbia, vento,
mi pensai solo: io e il buio.

Né donne, e quella
che sola poteva donarmi
senza prendere che altro silenzio,
era già senza viso
come ogni cosa ch'è morta
e non si può ricomporre.

Lontana la casa, ogni casa
che ha lumi di veglia
e spole che picchiano all’alba
quadrelli di rozzi tinelli.

Da allora
ascolto canzoni di ultima volta.
Qualcuno è tornato, è partito distratto
lasciandomi occhi di bimbi stranieri,
alberi morti su prode di strade
che non m’è dato d’amare.

(Da "Acque e terre", Ediz. di «Solaria», Firenze 1930)


  


LAOCOONTE
di Giorgio Vigolo (1894-1983)

La peggio solitudine dipende
da un amore smodato di sé.
Sei così solo perché dentro sempre
un amico geloso hai che non vuole
vicino altro compagno,
ma esserti, lui solo, il solo amico,
ed è questa metà non divisibile
che in mille divieti ci lega.

La sua furente gelosia ci addensa
una nuvola intorno
di paure, di ambasce
appena un'altra compagnia ci attira.
Subito lui si sente
tradito, come serpe
ci stringe intorno al collo la sua spira.

(Da "I fantasmi di pietra", Mondadori, Milano 1977)





AMARA SOLITUDINE
di Giuseppe Villaroel (1889-1968)

Amara solitudine, la vita
trascorre inutilmente. E questa folla
mi trascina per le vecchie strade.
Così sospinge a galla il mare un naufrago.
Anche tu sei scomparso, amore. E il tempo
cancellò la tua bocca e il tuo sorriso.
Arido cuore senza pace. E pure,
se dal giardino della villa antica,
ove sostammo nelle notti estive
smemorati dai baci e dalle lacrime,
si leva il vento e porta la tua voce
tra le foglie e i ricami della luna,
il sangue mi si scioglie; e il canto fermo
dei grilli a valle e il sonno dei cipressi
oh, come tristi tornano al pensiero!
Nebbia che scende lenta alle pianure
quando arriva l'autunno e il sole è spento.


(Da "Quasi vento d'aprile", Mondadori, Milano 1956)




Edvard Munch, "Despair"