giovedì 20 agosto 2015

La fine nella poesia italiana simbolista e decadente

Per "fine" s'intende qualcosa che termina o sta per terminare: in molti casi è la vita, ma può anche essere un evento temporale o atmosferico, un fatto o, semplicemente, una vicenda personale. Il tutto va ricondotto al post dedicato al disfacimento. Qui però ho voluto riportare, a mo' di esempi, alcuni testi esclusi dall'elenco di poesie presente in detto post. Buona lettura.



LA DIPARTITA
di Gustavo Balsamo Crivelli (1869-1929)

Era l'ottobre tardo. A noi d'intorno
grigio, deserto, sconfinava il piano:
all'orizzonte impallidiva il giorno
tra un brulichio di porpora lontano.

Ed io pensando nel crudel ritorno
già disciolta la mia dalla tua mano,
breve sosta di un sogno il mio soggiorno
nella tua casa ed il rimpianto vano,

come quel cielo che tra i pioppi in brume
d'argentee nebbie lento scoloriva,
vaporando un estremo, esile lume,

tutto sentii nel cor mio scolorire:
estasi, fedi, sogni e la mia viva
anima anch'essa come il dì morire.

(Dalla rivista «Riviera Ligure», 37, 1902)





MELANCONICAMENTE LE CAMPANE
di Gustavo Brigante-Colonna (1878-1957)

Melanconicamente le campane
Piangono l'anno, un altr'anno che muore...
Ed io mi guardo nel fondo del cuore:
Sempre lo stesso sogno vi rimane.

(Da "Gli ulivi e le ginestre", Carra, Roma 1913)





ELEGIA DEL LUTTO
di Enrico Annibale Butti (1868-1912)

La tetra notte ha fine. La pigra coorte dell'ombre
Si rifugia disfatta nel fumido occidente;

E il novo dì s'inoltra. Oh, come sorride nell'ora
Solitaria laggiù, sopra le case mute

E chiuse, la luce, tra un serto di rose e di gigli
Imprigionando l'ultima stella viva!

Oh, come su le piante cinguettan giulivi gli uccelli
Nella deserta piazza, sotto le mie finestre!

Io veglio ancora, solo (sì solo, sì solo e da tanto
Tempo!) e guardo smarrito con gli occhi lacrimosi

Là, là verso la luce, che cresce, arrossando gli spazi.
È sangue? È foco? È sangue?... Son le pupille mie.

Abbruciate dal pianto, che veggono il fuoco ed il sangue?...
Oh, portento! Ecco il Sole,.. Non è dunque finito

Il Mondo? Non ha steso la Morte, la Morte, la Morte
Sopra tutta la Terra la sua man trionfante?...

Madre, o Sola, o dolce compagna de' miei anni primi,
Ineffabil ricordo, desolato rimpianto.

Sorgi e mi guarda. Sorgi dal letto ove pallida giaci,
E schiudi le pupille dov'era tanta fiamma

D'amore... E la tua mano, deh! leva all'usata carezza.
Povera stanca mano, che il dolore ha consunta.

Oh, mi ripeti, o Madre, ancora una volta quel nome,
Che tu mi désti! Oh, ancora mi chiama una sol volta!...

Tu giaci immota e muta. Sei fatta di gelo e silenzio.
Più non mi vedrai: più non mi chiamerai;

Più non mi solcherai le chiome con l'esili dita;
Più non udrò il tuo passo nella nostra dimora,

Madre, o Sola, o dolce compagna de' miei anni primi,
Ineffabil ricordo, desolato rimpianto!...

Il sole irrompe nella mia stanza. La vita riprende
Dovunque su la Terra... Ma la mia gioja è morta!

(Dalla rivista «Nuova Antologia», gennaio 1899)





LA FINE DI DUE GATTI
di Paolo Buzzi (1874-1956)

Empivano le serenate di gennaio
dei loro terribili notturni midollari.
Erano l'orchestra
della mia tombale insonnia d'inverno.
Li avrei uccisi, una notte.
Un'altra, li avrei baciati sui baffi austriaci.
M'accompagnavano l'anima
per lunghi sentieri di buio.
Eran due gatti che si amavano
e protestavano al mondo l'amore.
A furia d'odiarli
li adorai: una notte
mi presi freddo a una finestra — oh, lungamente! -
per osservarli nel galoppo beato sotto il cielo.

Era il maschio nero lucido
d'una profondità di tenebra notturna
fatta quadrupede.
Avea la sua fissa
costellazione d'oro in fronte
come uno squarcio di zodiaco figurato.
Gli occhi
gli brillavano gialli,
e, a ritmo con le urla,
parevano dilatarsi
come scoppi di sole sull'aurora. Grosso
ma snello al par di giaguaro,
fiutava le sfere con la testa tonda,
ottusa nel muso anelante.
La coda scopava i silenzi
quasi una frusta di velluti
nel pugno a un Dio degli Spasimi felici.

Candida era la femmina come davvero
un bozzetto manipolato nella neve del mese,
ma d'una statuaria mobilissima e calda.
Avea l'orecchie e le pupille
erette della lince
— due fiamme nella gola d'una tomba bianca —
e il corpo lungo agile fluido flessibile,
il corpo che par tutta coda,
delle pantere vergini indiane
cui prude alla schiena prolissa
la primavera carnale della jungla.

Stavan sull'orlo d'un pozzo
profondo scoperto.
Balzarono sovra l'abisso della bocca di pietra,
con la leggerezza fida
di due gomme palleggiate da bimbi,
e ribalzarono
come nella gioia e nell'orgoglio
del gioco rischioso.
Fermi, talora, nella moina,
sporgevan le teste accese d'occhi
quasi due tonde lanterne
al buio tremendo del sottovuoto.
Vedevan giù nell'acque riflesse, assai forse,
con le stelle remotissime
le loro pupille remote?

Poi si rincorsero, ad archi,
pel breve circuito di pietra
come biglie in bigliardo
e cozzarono duri fino a sprizzar scintille:
urlarono quasi scottati
dal reciproco elettro pellicciale:
si morsero ai musi ed agli ani:
soffiando si rintanarono
in due opache ombre improvvise:
si cercarono al fiuto: si trovarono al lampo
giallone degli occhi,
sulla corda tetanica,
del medesimo urlo di dolore e di piacere.

Si carezzarono a graffi,
risaltarono per i meandri noti
dell'invisibile laberinto:
riapparvero, faccia faccia,
da un punto all'altro
del cavo cilindro voragineo:
si volsero i dorsi: le code,
sul vuoto, spinte dall'impeto dorsale,
si toccarono come due segmenti di fulmine.
Il maschio balzò sulla femmina.
Il doppio gomitolo fuso
rotolò lungo l'orlo ristretto
e sparve nel foro del Nulla
in una detonazione vocale
di bomba di carne
che scoppi per mille caverne di caverne.

O amanti di luglio, arse le vene
alla liquorosa ambrosia dei baci d'estate,
qui bevesi acqua di pozzo tonica
ai veleni felini dell'amore.
Venite, anime e fauci!

(Da "Versi liberi", Treves, Milano 1913)





IL DISTICO DELL'INGANNO
di Sergio Corazzini (1886-1907)

Mi tendevi le braccia, mi chiamavi
con la voce dolcissima e dolente,
e roteavi disperatamente
le tue pupille un dì tanto soavi.

I capelli biondissimi, già schiavi
di fulgido diadema che la gente
t'invidiava silenziosamente,
sciolti i capelli al vento abbandonavi.

E la tua voce sospirava: «Vieni,
torna amor mio, fra le mie bianche braccia
tu sarai il mio re, non già il mio schiavo!»

Mi parve d'impazzir, con gli occhi pieni
di pianto, corsi con giuliva faccia.
Credevo d'esser desto, ahimè, sognavo!

*

Il sole tramontava nel suo mare,
era il ciel di viole. Ginocchioni
io leggevo nei tuoi grandi occhi buoni,
che mi lasciavi un tempo sfiorare

con la bocca, io leggeva ne le care
pupille tue, la fine. Le illusioni,
fulgidi, immensi, ma fragili troni,
col sole io le vedeva tramontare...

E lentamente, come se il tuo cuore
rimanesse nel petto mio squassato
dai singulti, con dolce e noto gesto

mi porgesti la man piccina, fiore
di neve, ed io la strinsi disperato...
Credeva di sognare, oh no, era desto!

(Dalla rivista «Marforio», aprile 1903)





LA VITA NUOVA
di Federico De Maria (1885-1954)

Fin da domani io voglio mutar vita.
Comincerò bruciando
i libri che danno a la testa,
— come dice mio padre, — e buttando
a le ortiche la mia vesta
di poeta: vo' farla finita!
Prenderò a studiar sul serio
il diritto e l'economia
politica, che non ò peranco
toccati — sarà un refrigerio,
una doccia su l'inutilmente stanco
mio cranio, perchè si plachi
la malata nervosità mia.
Non cercherò più amici
letterati o poeti, briachi
di fiele, che intendono il santo
dover di baciarmi con piena
fraternità in viso e poi spargono
di spilli e frantumi di vetro
il mio cammino, o s'acquattano a un angolo
oscuro, per darmi di dietro
una coltellata a la schiena.
Cessin le lotte e le ire!
Non voglio più fare a l'amore
— sol, ne comprerò ogni tanto,
al massimo, dieci lire —
fin che mi avrà redento
con un buon matrimonio
qualche pingue ereditiera di provincia.
La vita nuova comincia.
Non c'è più nessun demonio
che mi tenti! — Olga, presto la tua
vanità sarà sposa al signore
nobile, da le fedine
che farebbero invidia a un barbagianni.
(Il cerulo foco
dei tuoi begli occhi francesi
non riscalderà più il mio cuore
come a' trepidi diciassett'anni.)
Flora, tu sei compagna da tre mesi
a quel bel pupattolino
del tuo sottotenentino —
e l'anima mia,
già in delirio per la tua bruna
bellezza non à più alcuna
oh no! inutile gelosia.
E tu, Luisa, che io
chiamai Occhi di cielo, Capo d'oro,
troverai presto un tesoro
di marito: tuo padre ti saprà
sceglier fra i suoi ricchi amici
qualche grosso sensale di frumento
o un onesto droghiere
che potrà senza stento
sodisfare ogni tuo piacere.
Come tutti vivremo, fino a creparne, felici!
Sarà mia nuova musa un buon cuoco,
nuovo ideale mio la maionese;
e metterò su a poco a poco
un quintale di pancia borghese!

(Da "La leggenda della vita", Ed. di «Poesia», Milano 1909)





IL MORTO GIORNO
di Riccardo Forster (1869-1938)

Senza rimpianto memore, dispare
il morto Giorno in invisibil tomba.
L'inghiotte forse il foco che giù romba,
oppur l'annega onnivagante il mare?

Non so. Pel cielo aleggia la lunare
chiarezza, come volo di colomba
bianca nel buio. Spero non incomba
più mai quel morto Giorno, all'albeggiare.

— O Notte dimmi che tu l'hai sepolto
per sempre, ed oscurar le lievi aurore
a me promesse non potrà il suo volto! —

Fu triste il Giorno. Vissi senza amore
avuto o dato; errai nel Nulla avvolto,
e non un verso mi cantò nel core.

(Dalla rivista «Poesia», giugno-luglio 1905)





PALAZZO MIRENA
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

Palazzo Mirena è distrutto,
distrutto dal fuoco.
In sera di festa, la veglia era piena,
le fiamme terribili avvolsero
il grande palazzo.
Più bello dei belli
s'ergeva nel mezzo al giardino,
superbo fra gli alberi grandi.
Le fiamme arrivarono al cielo
per tutta la notte,
la notte che ognuno ricorda, e si segna.
L'aurora lo vide terribile mucchio
di bragi roventi.
Ognuno ricorda la notte del fuoco.
Il cielo che s'ebbe di fiamme
terribile omaggio per tutta una notte,
rimase chiazzato di rosso
per giorni e per giorni.
E ancora ai tramonti vi sostano sopra
vapori rossastri,
vi sostan siccome a saluto,
messaggi di fiamme lontane
venuti da nuovi flagelli.
E il vento per anco solleva
le ceneri ultime.
In sera di festa, la veglia era piena,
smagliante di luci e di gemme,
fiorita da petali rossi e scarlatti
di dolci sorrisi lunghissimi,
fra muover di passi leggeri,
di piccoli passi dorati;
strisciare d'inchini profondi, lentissimi,
frusciare di serici manti,
di manti vermigli, violetti,
di manti bianchissimi,
coperti di gemme fulgenti,
cosparsi di perle finissime,
goccianti di vivi diamanti,
fluenti di trecce biondissime,
nel mezzo a la notte
le fiamme terribili avvolsero
il grande palazzo.
Moltissime dame perirono,
alcune rimasero folli,
le meno ne furono salve.
Madama Mirena,
la bionda Contessa dal guardo di Sole,
rimase al suo posto.
Si videro dame gettarsi dall'alto
ravvolte di fiamme,
fuggire seguite dal fuoco appiccato a le vesti,
fuggire fuggire pel grande giardino
siccome le torce terribili al vento
strapparsi le trecce infuocate,
le vesti coperte di fiamme,
gettarsi furenti a le vasche
nel mezzo al giardino.
Colonna tremenda di fiamme
al cielo s'alzava Palazzo Mirena,
giravan d'intorno furenti,
cadevan dall'alto
fardelli di fiamme roventi,
le dame ormai folli.
Pochissime furono salve.
Nessuno più vide Madama Mirena:
padrona, rimase al suo posto
strisciando a le fiamme l'inchino Infinito.
Gli avanzi rimangono intatti,
nessuno vi pose la mano,
soltanto una croce
fu posta nel mezzo fra i neri carboni
che a l'ombra degli alberi grandi
rimangon ricordo.
Talora fra il nero si scorgon
dei raggi lucenti,
fulgore di gemme rimaste,
«son gli occhi di Dama Mirena!»
Di sotto ai carboni
si dice che ancora Ella guardi.

(Da "Lanterna", Stab. tip. Aladino, 1907)





DOPO L’ACQUAZZONE 
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Passò strosciando e sibilando il nero 
nembo: or la chiesa squilla; il tetto, rosso, 
luccica; un fresco odor dal cimitero 
               viene, di bosso. 

Presso la chiesa; mentre la sua voce 
tintinna, canta, a onde lunghe romba; 
ruzza uno stuolo, ed alla grande croce 
               tornano a bomba.

Un vel di pioggia vela l’orizzonte; 
ma il cimitero, sotto il ciel sereno, 
placido olezza: va da monte a monte 
               l’arcobaleno. 

(Da "Myricae", Giusti, Livorno 1900)





GOLADORO
di Luigi Siciliani (1881-1936)

Partite etano già le rondinelle
per lontano viaggio;
soltanto Goladoro
cantava dolcemente, con amore,
sul tetto della casa molto vecchia
che lenta lenta lenta ruinava.
Da nessuno ascoltato egli cantava...
cresceva il musco sopra il limitare
umidiccio, le cui
pietre si sbriciolavan ctepitando;
il seròtino lume s'addormiva
nelle stanze deserte:
e il vento incerto vagolava dentro
il vastissimo atrio desolato:
ma Goladoro seguitava il canto.
La letizia, la pace era fuggita,
ogni gioia finita:
egli ignorava dove,
ignorava perché; ma pure sempre
sulla deserta ruinante casa
immutato cantava
il suo canto d'amore...

(Da "L'amore oltre la morte", Quintieri, Milano 1912)





LA FINE DELLE RONDINI
di Mario Venditti (1889-1964)

S'eran levate con un frullo tale
che avea mutato il volo repentino
in una tarantella a concertino
e in nacchera ciascuna coppia d'ale.

Ma, quando il cielo non fu più turchino,
allora il ritmo diventò ineguale:
ora speranza d'albero ospitale,
or nostalgia di nido non vicino.

Una ferrata antenna, animatrice
d'incudini, le filiformi braccia
tese allo sciame come salvatrice.

Ma, a pena tocca, folgorò con fiamma
occulta : e offerse alla funerea marcia
del turbine un orrendo pentagramma.

(Da "Il cuore al trapezio", Taddei, Ferrara 1921)





COLLOQUIO
di Giuseppe Cesare Viola (1886-1958)

Notte fosca. La strada maestra
s'ingolfa pei vasti uliveti,
siccome una tòrtile fascia distesa a l'aperta campagna,
interminabilmente.
Un uomo, sul ripido margine, indugia seduto,
protetto da un alto oleastro.
Passa il vento e, rabbioso, ammulina nell'émpito
nuvole bianche di polvere,
e squassa le rame fronzute de l'albero.

*

Piegato alla terra dal turbine,
l'albero ha scorto il viandante ignoto;
ne la voce del vento dimanda, ora, curvo: - Chi sei? -
Il mento poggiato sul petto,
le braccia in prostrato abbandono,
le larghe pupille smarrite nel vuoto, lontano,
desolatamente,
l'uomo pallido, immobile, tace.
E l'albero chiede: - Chi sei? -
Attònito l'uomo si scuote,
si volge: ha udito;
pensa un istante, poi dice: - Nessuno. -
- Donde vieni? - Interroga il vento. - Non so. -
- Che fai tu? - risponde: - Nulla. -
- Come vivi? - mormora: - Muoio. -

Il vento fa sosta: pensosi,
tacciono l'albero e l'uomo.
Pende la tetra notte
su la campagna,
lugubramente.

*

Ululando una raffica scende dai monti lontani
e s'avventa su gli alberi muti;
e l'oleastro scosso,
di nôvo domanda: - Chi sei? -
Esita l'uomo e non parla;
ma quindi - e gli treman la voce ed il pianto ne l'arida gola -
lentamente sussurra: - Un bastardo! -

*

Acciuffato dal vortice ratto del vento,
piegato, sbattuto, ora, l'albero piange un suo vano lamento ne l'aria;
disperato, siccome in un folle delirio,
dibatte nel cielo le folte sue rame tremanti,
quasi un ebro che, fermo in un punto,
barcolli, proteso in avanti,
poi con rapida stratta all'indietro
si drizzi ed inarchi la fléttile schiena,
si dimena, si curva, smozza
le parole, si torce, singhiozza...
Forsennato poi grida con tutte le cento sue canne vibranti:
- O fratello! fratello! -

*

S'erge l'uomo e diritto,
siccome una statua di bronzo sul muto pallor della via,
fissa l'albero nero, che s'agita come dannato,
e convulso gli grida:
- Tu chi sei che mi chiami col nome d'amore,
che mi chiami col nome di sangue? -
Si raccoglie, siccome un'enorme cervice di foglie,
l'albero e, chino su l'uomo, sussurra:
- Io sono il bastardo, fratello!
Io son l'oleastro!...

*

Io non nacqui, campato ne l'aria, solenne,
sul ramo d'un fervido olivo possente;
a me non fu dato cantar ne la mia giovinezza, felice,
la gioia di vivere, in coro con tutte le rame sorelle.
Germinato dal piccolo seme,
non so donde venni,
non so perché sorsi:
ignoro la pianta matrigna che, frutto, mi volle nutrire.
Solitario, ne l'umili zolle,
ho sfiorite le mie primavere,
senza udire al mio fianco
o nei chiari messaggi del vento,
da lungi, una voce di madre;
dannato a la vita,
ché cruda la terra mi lega con tutte sue forze tenaci,
io mi son ribellato e alimento,
selvaggio e infecondo,
nel cuore mio tetro una brama infinita di morte.
Non m'allegro d'un fiore all'aprile e alla monda
non cedo un sol ramo, una fronda;
in attesa che, un giorno, gli umani
mi schiantino a colpi furiosi di zappa,
divelto, con tagli vibrati di scure,
mi spacchino tutte le rame contorte;
m'abbrucino infine e s'innalzi fiammando,
ne l'umile pace d'un nero camino,
lo spirito mio tormentato,
rossigno, focace. -

*

- Come la sorte mia! -
sospira il viandante
- Son l'uomo senza lacrime,
che non sa a chi mostrare il suo pianto! -

*

E l'albero, curvo, continua:
- Io sono dannato alla vita,
ma, tu, Uomo, libero come il mutevole soffio del vento,
come l'acceso vibrar della luce,
come il folle avanzar della tempesta;
che, solo, cammini,
sperduto alla notte ululante,
- e non brilla nel tempo remoto
al tuo sguardo il ricordo d'un dolce sorriso,
non trema nel cuore tuo stanco
una tenua canzone di nôva speranza -
tu che cerchi e non trovi a te intorno
una voce materna,
una voce fraterna,
a che segui l'inutil viaggio?
Vana è la vita per te:
ucciditi, muori!... -

*

L'uomo ascolta e si tace pensoso;
poi sussurra: - Sì... Vana è la vita per me.
Scomparire val meglio,
finire per sempre,
morire.
Son partito da tenebre ignote: ritorno all'Ignoto!... -
E l'albero: - Ecco un mio ramo;
tessi da tutti i brandelli che addosso trascini una corda robusta;
legala al braccio ch'io tendo, propizio:
un rapido nodo scorsoio al tuo collo!
Appiccati.

A l'alba, domani,
mostrerò il primo mio frutto... -

*

La strada maestra s'ingolfa pei vasti uliveti,
siccome una tòrtile fascia distesa a l'aperta campagna,
interminabilmente.

Da un alto oleastro, movendo nell'aria una màcabra danza,
penzola, tetro, un cadavere.

Passa il vento e, rabbioso, ammulina nell'empito
nuvole bianche di polvere,
e squassa le rame fronzute de l'albero.

(Da "L'altro volto che ride", Ricciardi, Napoli 1909)




Carlos Schwabe, "The Death of the Grave-Digger"

 

sabato 15 agosto 2015

Poeti dimenticati: Guido Pereyra

Leonardo Lilia (in arte Guido Pereyra) nacque a Firenze il 6 settembre del 1881 e morì nel 1968. Di lui esistono poche notizie, si sa comunque che svolse la professione d'insegnate di lettere presso il Ginnasio "Dante" di Firenze. Iniziò a pubblicare volumi di versi col suo nome reale, quindi, nel 1920, decise di usare uno pseudonimo per la sua opera poetica più importante: Il Libro del Collare. In seguito ripudiò le sue poesie. Le migliori poesie di Pereyra posseggono elementi filosofici (in particolare si rifanno alle discipline filosofiche indiane) ed autobiografici: contengono, in pratica, dei discorsi introspettivi, ragionamenti logici e deduzioni provenienti dall'esperienza personale e dalla vita in società. Si occuparono dei suoi versi, tra gli altri, Emilio Cecchi, Pietro Mignosi, Glauco Viazzi e Alessandro Parronchi.




Opere poetiche

"A vent'anni", Barbera, Firenze 1901.
"Nuove poesie: testamento", Barbera, Firenze 1902
"Il Libro del Collare", Vallecchi, Firenze 1920.





Presenze in antologie

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. VI, pp. 94-103).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 1, pp. 144-147).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo primo, pp. 277-281).




Testi

CANTO VI°

Attenti! quando vedete così sbiancare il mio viso,
è il segno: la marionetta allora spunta; è l'avviso.

Eccola! è lei: già la sento, che da' precordii m'affiora
sul volto scolorito. Non son lo stesso che or ora.

Non son più quello, non sono. Io vo verso l'ultima danza!
via questi libri, via tutto, via quel che c'è in questa stanza!

Fermi: non è niente. Perché v'arretrate alla parete?
Fermi, fermi, vi dico. Ecco: è bell'e fatto. Vedete?

Fatto. Son ritornato quel ch'ero, è passato il momento
brutto; per oggi potete stare tranquilli, lo sento.

Ma voi siete pallidi! Perché mi guardate così,
se vi dico che ormai non è altro, che tutto finì?

Animo! tornate qui con me: ritorniamo tranquilli
al nostro lavoro! volete proprio mostrarvi pusilli

da aver paura se in faccia a voi qualcuno sgambetta,
da aver paura di un essere innocuo, una marionetta?...

«Ma dunque quando tu parli con noi, tu non sei sincero?»
mi disse una volta uno. Io tacqui. Purtroppo è vero.

Purtroppo il mio vero essere non è già quello ch'io mostro,
è un altro, o uomini gravi, che sfugge allo sguardo vostro;

è un altro che nessuno sospetta, che invece è nascosto
dentro di me, che invece soltanto ha cambiato di posto.

«Non più, non più: nessuno ormai mi vedrà» questo il patto
che con me stesso - un giorno dirò forse come - ho contratto.

Mi sembra che la mia voce abbia mutato di tono,
e suoni falso ormai; che qualcuno in lugubre dono

m'abbia dato una maschera da gittarmi sopra la faccia,
che copre il mio vero essere, e, se riaffiora, in giù lo ricaccia,

e lo tiene compresso, allor che improvviso sgambetta
lui... chi sapeva che in me ci fosse una marionetta?

C'era, ma non si sapeva. O se c'era! e sta quieta
di solito, sì che a molti la cosa resta segreta;

ma, se vede gli altri uomini starsene al loro posto
con grande prosopopea, scoppia in un riso nascosto,

ma non meno sonoro, e sente il bisogno di andarsene
tra loro a portar scandalo, e a turbare le loro farse.

Ce ne vuole a tenerla allora; e talor nell'assalto
riesce, e trova benanco la via d'uscire su in alto...

Sì, soffocando la smania di un attimo definitivo
ch'ho in me, mi sforzo a viver la vita che tutti vivono,

a vivere al par di voi, a immergermi nelle diverse
cure in cui tutte l'altre creature sono sommerse;

ma io non sono sincero; vedete, non sono sincero,
perché il mio vero essere non è quel ch'io sono, è quel ch'ero;

perché, per esser sincero, io dovrei, ogni momento,
uscirvi fuori in questo assoluto pronunciamento:

«Non v'accorgete, o uomini, che il far gli affari del mondo
è una commedia di fronte all'ansito nostro profondo,

e che nessuna fede nell'immanenza assoluta
potrà soffocar questo conato, e rendere muta

la protesta immortale del calabra che si ribella
a essere incatenato, e i propri ceppi sfracella?»

Sì, soffocando la smania di un atto definitivo,
tento prender sul serio l'Individuo, in cui tutti vivono;

ma talor la figura che, nolente me, avevo assunto
si rovescia d'un tratto, mentr'io mi scoloro in quel punto;

la figura dell'uomo empirico, il suo gesto, il suo atto
scompaiono in faccia agli altri che guardano: ecco, ad un tratto

gli astanti, incerti e stupiti, scoprono a fiore del suolo
l'antica marionetta levata sur un piede solo.

Io provo quel che provai di già, in un'ora solenne...
È l'essere senza nome, quello che un momento mi tenne

sospeso nel terribile dilemma, che ricompare,
e dice a me, uomo empirico: «O tu, non dimenticare,

tu che vinci, che un giorno insieme con te io ci fui!»
Io rivivo il dilemma tra l'uomo empirico e lui...

Niente: l'uomo empirico, che il suo titanismo reprime,
copre con la sua maschera codesta ironia sublime. 

(Da "Il Libro del Collare")

martedì 11 agosto 2015

Antologie: I poeti di "Circoli"

Mi piacciono molto le antologie poetiche dedicate alle riviste letterarie importanti, per questo apprezzo la recente pubblicazione di I poeti di "Circoli" 1931-1934, il periodo genovese, a cura di Michele Bono, San Marco dei Giustiniani, Genova 2009. Si tratta di una selezione poetica operata scegliendo i testi usciti nei primi anni di vita della rivista, quando essa prediligeva la poesia alla prosa, e a condurla era proprio un poeta: Adriano Grande, che ne fu anche il fondatore. Tutto ciò avvenne tra il 1931 ed il 1934, dopodiché Circoli assunse un altro aspetto, cambiando anche sede (da Genova a Roma) e dedicandosi maggiormente alla narrativa europea e americana. Ma, poeticamente parlando, quello che conta è il primo periodo; qui infatti partecipano alla rivista giovani poeti italiani di grande talento come Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Libero De Libero, Carlo Betocchi, Sergio Solmi, Sandro Penna, Attilio Bertolucci, Giorgio Vigolo ecc. Insomma è presente nelle pagine di Circoli quella compagine di poeti che di lì a breve sarebbe stata definita da Luciano Anceschi "Lirici nuovi" (da cui il titolo della sua famosa antologia). Ad essi vanno aggiunti altri nomi di poeti più anziani di altrettanto valore come Enrico Pea, Umberto Saba, Giuseppe Ungaretti, Camillo Sbarbaro e Angelo Barile, i quali vanno a completare il panorama della poesia italiana più innovativa e di qualità che quel periodo storico potesse offrire. D'altronde erano anni, quelli lì, in cui proliferavano riviste letterarie molto interessanti, in cui la poesia occupava un posto importante, se non primario; a proposito di riviste, fra tante, è giusto per lo meno citare Solaria: pubblicata tra il 1929 ed il 1934: la rivista fiorentina è probabilmente la più significativa sia per la qualità dei testi che pubblicava, sia per lo spirito libero e innovativo che la caratterizzava. Ritornando a questa antologia, sarebbe sbagliato non considerare gli altri poeti presenti, i quali, seppur di minor valore, non sfigurano nel coro. C'è infine da sottolineare il lato internazionale della rivista, che ospitò spesso e volentieri poeti stranieri anch'essi di ottima qualità; ne fanno testimonianza le poesie presenti nella seconda parte del libro. Ecco l'elenco di tutti i poeti di "Circoli".






I POETI DI "CIRCOLI"

PARTE PRIMA - ITALIA
Angelo Barile, Attilio Bertolucci, Carlo Betocchi, Guglielmo Bianchi, Giorgio De Chirico, Libero De Libero, Filippo De Pisis, Giovanni Descalzo, Farfa, Marcello Gallian, Alfonso Gatto, Virgilio Giotti, Adriano Grande, Renzo Laurano, Curzio Malaparte, Glauco Natoli, Corrado Pavolini, Enrico Pea, Sandro Penna, Giacomo Prampolini, Salvatore Quasimodo, Umberto Saba, Alberto Savinio, Camillo Sbarbaro, Emilio Servadio, Leonardo Sinisgalli, Sergio Solmi, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Vigolo.


PARTE SECONDA - DAL MONDO
NORDAMERICA: Leonie Adams, Emanuel Carnevali, Countee Cullen, Edward Estlin Cummings, Emily Dickinson, H. D. Doolittle, Thomas Stearns Eliot, Robert Frost, Langston Hughes, Amy Lowell, Edgar Lee Masters, Marianne Moore, Ezra Pound, Edwin Arlington Robinson, Carl Sandburg, Wallace Stevens, William Carlos Williams.
FRANCIA: Jean Cocteau, Yvan Goll, Max Jacob, Lautrèamont, Jules Supervielle, Tristan Tzara.
PAESI SLAVI: Otakar Brezina, Velimir Chlebnikov, Vladislav Felicianovic Chodasevic, Nikolaj Liliev, Jiri Wolker.
SVEZIA: Dan Andersson, Erik Blomberg, Pär Lagerkvist.
OLANDA: Hendrik de Vries, Hendrik Marsman.
ROMANIA: Lucian Blaga.
SPAGNA: Jorge Guillén.
IRLANDA: James Joyce.

domenica 2 agosto 2015

Poeti dimenticati: Augusto Garsia

Nacque a Forlì nel 1889 e morì a Firenze nel 1956. Fu poeta, prosatore e critico letterario; i suoi versi possono essere considerati una prosecuzione della poetica crepuscolare: lo si evince sia dalle atmosfere spente, languide e malinconiche che dalle ricorrenti parole come "stanchezza", "tristezza", "dolcezza" ecc. Garsia spesso ambienta le sue poesie in luoghi desolati, sul far della sera, e in questo contesto esprime i suoi pensieri e i suoi sentimenti pregni di rassegnazione e di nostalgia per un tempo lontano, per un entusiasmo perduto. Non sono assenti i momenti di un misticismo raccolto. Tutta la sua migliore lirica si sviluppò nel terzo decennio del XX secolo, e fu proprio in questo periodo che ottenne dei riconoscimenti. Troppo presto però fu dimenticato ed oggi nessuno ricorda il suo nome.




Opere poetiche

"Opposte voci",  Vallecchi, Firenze 1921 (1940²).
"Voci di là dal fiume", Battistelli, Firenze 1924.
"Poesie: 1921-1925", Giusti, Livorno 1926.
"Voci del mio silenzio", Campitelli, Foligno 1927.
"Voci del mio cammino", Giusti, Livorno 1928.
"Le voci: Voci del mio cammino: Antologia di spente voci", Formiggini, Roma 1930.





Presenze in antologie

"Poeti Novecento", Mondadori, Milano 1928 (pp. 57-60).
"La poesia italiana di questo secolo", a cura di Pietro Mignosi, Edizioni del Ciclope, Palermo 1929 (pp. 159-160).
"L'Adunata della poesia", 2° edizione, a cura di Arnolfo Santelli, Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo 1929 (pp. 282-286).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. III, pp. 94-102).
"La nuova poesia religiosa italiana", a cura di Gino Novelli, La Tradizione, Palermo 1931 (pp. 150-153).
"I crepuscolari: saggio e composizioni", a cura di Nino Tripodi, Edizioni del Borghese, Milano 1966 (pp. 485-490).




Testi
FORSE

Come la sera d'agosto
ultima è dolce! Lontano
vien dalle nebbie del piano
timido zirlo quassù:

timido zirlo che tosto
lungo e sicuro si stende
da balza a balza, e s'accende
timido zirlo quassù;

Tremulo zirlo che monti
come un respiro di pace
dove impassibile tace
l'aria e s'illumina, tu,

calmo respiro dei monti,
mentre s'accendono l'Orse,
in cuor mi mormori «Forse»
e non mi dici «Mai più».

(Da "Opposte voci")



martedì 28 luglio 2015

Le figure dimesse nella poesia italiana decadente e simbolista

Sono personaggi solitari, isolati dal mondo per scelta o per circostanze avverse; per loro i poeti mostrano grande simpatia e spesso pietà. Quasi tutti vogliono rappresentare la sconfitta, la rassegnazione, la perdita di tutto: affetti, cose, speranze. In alcuni casi però si nota una certa fierezza dell'uomo o della donna che, contro tutto e tutti vive una situazione sfavorevole e trova in tale stato la consapevolezza di essere, per alcuni versi, un eroe incompreso. Non mancano figure misteriose, che a volte svolgono un lavoro monotono e continuo, a volte sembrano immerse in una sorta di esistenza mistica, la quale si conclude in modo talmente sorprendente da lasciare il lettore (e forse anche il poeta) incapace di dare una qualsiasi spiegazione alla vicenda.



Poesie sull'argomento

Mario Adobati: "Il saggio della selva" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Pier Angelo Baratono: "I perversi" in "Sparvieri" (1900).
Enrico Cavacchioli: "La vedetta" e "Litanie del silenzio" in "L'Incubo Velato" (1906).
Giovanni Croce: "Frati" in "L'anima di Torino" (1911).
Auro D'Alba: "Il suonatore ambulante innamorato delle stelle" in "I Poeti Futuristi" (1912).
Federico De Maria: "Il Beduino" in "Le Canzoni Rosse" (1904).
Federico De Maria: "Lo scemo" in «Poesia», novembre 1908.
Marcus De Rubris: "­Zingani" in "La Veglia" (1910).
Giuliano Donati Pétteni: "Rassegnazioni" in "Intimità" (1926).
Aldo Fumagalli: "Buio:.. gente che passa per la via deserta" in "Arcate" (1913).
Diego Garoglio: "L'esule" in "Sovra bel fiume d'Arno" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Attesa materna" in «Nuova Antologia», gennaio 1908.
Domenico Gnoli: "La vecchietta dell'alpe" in "I canti del Palatino. Nuove solitudini" (1923).
Corrado Govoni "Contraddizione" e "La mendicante" in "Gli aborti" (1907).
Guido Gozzano: «Historia» in "Poesie e prose" (1961).
Giuseppe Lipparini: "Elena" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Tito Marrone: "Crisalide" in «Poesia», gennaio 1906.
Pietro Mastri: "Accoccolato lì, come una balla" e "Le scolte" in "La Meridiana" (1920).
Ada Negri: "L'Errante" in "Dal profondo" (1910).
Giovanni Pascoli: "La cucitrice" in "Myricae" (1900).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "L'amante ignota" in "Il Libro dei Frammenti" (1895).
Guido Ruberti: "La Devota" in "Le Evocazioni" (1909).
Domenico Tumiati: "L'organista ambulante" in "Liriche" (1937).
Aurelio Ugolini: "L'uomo-orchestra" in "Viburna" (1905).
Carlo Vallini: "Lo scriba" in "Un giorno e altre poesie" (1967).
Remigio Zena: "La mendicante" in "Le Pellegrine" (1894).




Testi

LA VEDETTA
di Enrico Cavacchioli

- Suggesti il latte, o mio tenero amore!
Non pianger più. Non pianger più. Ritorna
il sogno a carezzare il tuo dolore. -

Ora il cielo di nubi alte s'adorna
e tu, Vedetta, per i baluardi
rimi il passo che sa per dove aggiorna,

rimi il canto che sa ritmi beffardi
e col battito triste del tuo cuore
pensi alla terra, al sole e non lo guardi,

e non l'invochi per il tuo terrore!

*

- O ninna-nanna, o ninna-nanna, o ninna-
nanna, la bimba s'è tutta ferita:
sentite il grido suo come tintinna?

Quale dolcezza non l'avrà smarrita?
E qual silenzio nella culla lenta,
lenta, non mai l'avrà ringiovanita?

O ninna-nanna, o ninna-nanna, è spenta
l'ultima luce che t'avèa protetto,
l'ultimo sogno che t'avèa redenta;

non ò culla: il cielo è violetto...

*

Come zirlano i grilli! Il mare immenso
venta alle tamerici; il suo sospiro
salmastro sale su come un incenso..

Una vela che trema, in lento giro
disperde l'occhio vigile del fiocco
malinconicamente; il suo respiro

sembra ansimare dietro allo scirocco
che la frusta, la fa rabbrividire,
stirare con un fulmine di schiocco.

Ed un gabbiano grida. L'imbrunire.

*

O Vedetta vagante, muta e sola
nell'ombra in cui la luce si riposa
quale pensasti mai dolce parola?

Quale sorella in abito da sposa
vedesti comparire, tra le reti
dei pescatori? Quale lacrimosa

storia di monachelle e di roseti
nella quiete or vedi interlunare?
Ànno le stelle un lento tremolare,

anche tu fremi come li albereti.

*

Un grido sale: - All'erta sentinella!
Passa una barca rapida, fuggente,
e la notte l'avvolge nella bella

capellatura, aurina, iridescente.
Un passo si confonde, si diffonde
quasi sfiorato, quasi non si sente,

ed il tuo sogno va, per le profonde
immensità lontane che non so:
ma la tua voce lugubre risponde

velatamente, sola: - All'erta sto!

(Da "L'incubo velato", 1906)





ACCOCCOLATO LÌ, COME UNA BALLA
di Pietro Mastri

Accoccolato lì, come una balla
di cenci, ad uno stipite
della sua catapecchia,
si còce al sole. Come un lento pendolo
in bilico fra l'una e l'altra spalla,
dondola il capo, che ha mozza un'orecchia.

Dondola il capo non ancora adulto,
segnato a sangue e lividi
dai sassi della via nelle cadute,
di schianto giù, tutto il corpo in sussulto
che si sbatacchia e nella strozza un mugolo
rotto e la bava sulle labbra mute.

Dondola il capo. Pur d'udire il sincrono
ritmo: tic-tac, tic-tac... Ei, no, non l'ode.
Gli scorre il tempo, dentro, come un tacito
fiume notturno, che non abbia prode.

Per ore ed ore ed ore. Innanzi, il borgo
tace nel solleone che lo sgretola:
un buffo d'afa alza talvolta un gorgo
vorticoso di polvere.

Di tanto in tanto per l'arsiccia strada
passa una pésta grave, un trotto rapido,
un tardo scalpiccìo; schiamazza un sùbito
irromper di fanciulli... Egli non bada.

(E chi gli bada, a lui?). Bada alle mosche.
Ronzano a sciami intorno. Egli ne sèguita
il volo, a collo torto, con le losche
pupille, opache, di vitello morto.

E ride loro. E dalla bocca flaccida
squittiscon suoni che non son loquela
umana, - dalla crepa ove la sciabbia
viscida fila una sua ragnatela.

Scaglia una mano all'aria con fulmineo
gesto, a tratti, e una mosca acchiappa a volo.
Di sulla palma se la trae col solo
scorrere delle dita abili e caute.

L'ha fra il pollice e l'indice.
La guarda un poco. E poi... là, fra due denti,
l'acciacca... E intanto, mentre il capo dondola
coi bovini occhi spenti,

con quell'orecchia mozza,
dondola senza posa come un pendolo,
il suo riso gorgozza.

(Da "La Meridiana", 1920)





L'UOMO-ORCHESTRA
di Aurelio Ugolini

Come una polverosa
cicala che s'inebria alla gran fersa
del bollente meriggio e, senza posa,
inni dalle stridenti elitre versa;

per le dorate vie
fra gli obliqui veicoli, ridesta
la verde vision delle natie
valli, squassando i magri arti e la testa.

A un singulto di pelli
concave, a un formidabile clangore
di dischi, a uno scrollar di campanelli,
sporgono visi ai davanzali in fiore.

Ma invan, gialla di tedi
infiniti e scavata dalla fame,
leva la faccia ad ora ad or, se a' piedi
il tintinno oda e il rimbalzar del rame.

Agli occhi avidi innanzi,
le redolenti canove e le dapi
onde ricca è la via, passano e i manzi
sanguinolenti fra il ronzio dell'api.

E, mentre dall'interno
delle cucine fumide e vermiglie
giungegli — è il mezzodì — quasi uno scherno
stridulo di posate e di stoviglie;

Tantalo vero, umana
cariatide, ei va sotto gl'immoti
dardi del sole e lento s'allontana,
trempellando co' suoi due ventri vuoti.


(Da "Viburna", 1905)



Pierre Puvis de Chavannes,  "The Poor Fisherman"

domenica 12 luglio 2015

Il telefono in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Ti chiamo... ancora una volta ti chiamo con la solita speranza: che finalmente parliamo di cose importanti, di noi, di ciò che proviamo l’uno per l’altra. Ma la mia speranza svanisce di nuovo, dopo nemmeno un minuto che parliamo. Tu ricominci a proporre argomenti futili, che riguardano fatti poco interessanti per me. Sto comunque al gioco, e ti rispondo dimostrando attenzione e coinvolgimento. Poi, mi stanco, e continuo a dirti – mentre tu prosegui instancabile il tuo colloquio – un “sì”: un’approvazione che significa sfinimento. Quando hai esaurito ogni possibile dettaglio, e oramai anche tu ti dimostri stanca ed annoiata, mi dici che si è fatto tardi, che hai qualcosa di urgente da fare, e mi saluti velocemente prima di chiudere la comunicazione. Certamente ci risentiremo: sarai magari tu a chiamarmi la prossima volta, o forse sarò ancora io, e di nuovo nascerà in me la speranza che potremo dirci, finalmente, delle parole importanti. No, non posso abbandonare questa mia illusione, poiché mi occorre per continuare a vivere, perché voglio continuare a parlare con te, anche senza vederti mai.



TELEFONO

di Giovanni Bertacchi (1869-1942)

Parla un uomo al telefono. Qualcuno
ch'io non odo né veggo a lui risponde:
prega un uomo all'altar: parla con Uno 
che per me tace, che per me si asconde.

Deh, se basta a varcar tanta distanza
un tenue filo a chi pur resta immoto;
se il tenue filo d'una pia speranza
basta pei cuori a penetrar l'ignoto,

date a me pure il fil che si dilunga
oltre il giorno dell'uomo e la sua sede;
datemi il tenue tramite che giunga
al Lontano che parla e non si vede!

(Da "Alle sorgenti", Baldini & Castoldi, Milano 1906)





PER TELEFONO
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Ascolto per telefono il fragore
di Roma liberata. «Vedi - insiste
l'amico nel chiamarmi - non li vedi,
sempre così, mostrati sulla terra.»
Incalza: «ma strafanno, l'aria è piena
di Roma, di campagne...». «Spegni», grido.
Resta il silenzio e non così divisi
dal filo che ci unisce, «Siamo stanchi»
dico nello scoprirmi amaro, vile
d'invidia «e questo caldo, questa smania
d'uscire... ma che fai, pronto, Giorgio...?»

(Da "La storia delle vittime", Mondadori, Milano 1966)





TELEFONATA NOTTURNA
di Margherita Guidacci (1921-1992)

La tua voce
intensa e quieta, che viene di tanto lontano,
come un raggio improvviso ha attraversato la notte,
inargentando foglie, facendo biancheggiare le spume
d'acque segrete, rivelando
nitido un altro lembo
di questo sempre nuovo paesaggio d'amore -
così vario
che mai finiamo di scoprirlo.

(Da "Inno alla gioia", Centro Internazionale del Libro, Firenze 1983)





Da "LE PETIT MONTAGNARD"
di Mario Luzi (1914-2005)

Lo squillo del telefono nella casa deserta
dà un brivido sottile, recide oscure speranze.
Non mi mossi, non scesi neppure fino all'orto.
Fui qui presente e assente in questa luce
da finestra a finestra della casa
ore e ore, lasciai venire e andare
pensieri eterni nella mente inerte.

Il giorno lungo e fradicio leva alti i suoi vessilli.
È tardi? il carpentiere sale sui castelli e i ponti.
Lo sai, mi tengo pronto al tuo richiamo,
veglio, attendo, fo sì che non risuoni
lo squillo del telefono nella casa deserta.


(Da "Dal fondo delle campagne", Einaudi, Torino 1965)





TELESELEZIONE
di Daria Menicanti (1914-1995)

Soprattutto mi piace col telefono
entrargli nella camera lontana
di là dal monte,
sentire il mio squillo
che si avventa nel buio. Poi la cara
voce fra tutte che risponde:
Sì-ì?

(Da "Canzoniere per Giulio", Manni, Lecce 2004)





TELEFONO
di Marino Moretti (1885-1979)

Sei tu! sei tu! sei tu! Mentre ti parlo,
mentre t'ascolto, immobile, mi pare
che la tua voce seguiti a vibrare
in questo orecchio mio per lacerarlo.

Sei tu! sei tu! La tua voce mi giunge
da una profondità d'anima oscura:
io ti rispondo, amica, ma ho paura,
che vicina mi sei tu che sei lunge.

Ho paura di te, di quest'ordigno
che al mio povero cuor che più non sogna
dona la voce tua, la tua menzogna
come per uno spirito maligno!

E mi par quasi che fra tanto fasto
d'illusioni solo quest'ordigno
fedele al muro, come un vecchio scrigno
pieno di voce tua, mi sia rimasto!

Tu parli e io vedo il tuo bianco profilo
un po' chinato sovra l'apparecchio
mentre raccogli nell'intento orecchio,
più che il mio dire incerto, il mio respiro;

tu parli e io non t'ascolto: non t'ascolto
perché ti vedo: vedo d'improvviso
una lieve penombra di sorriso
ch'erra nel volto tuo, chino e raccolto.

Ah, ridi ridi ridi tu che sei
bella e ami solo la tua gioventù.
Io? Ti rispondo, ma non sono più
che due numeri: 10-36...

(Da "Poesie 1905-1914", Treves, Milano 1919)





PAROLE CHE VENGONO DI LONTANO
di Nino Oxilia (1889-1917)

Dalla finestra aperta guardo i monti.
Qualche nuvola bassa
sui dentati orizzonti
vivida di bagliori
passa.
Ora curvi, ora dritti, i falciatori
taglian l'ultimo fieno
sotto il cielo sereno
con larghi gesti monotoni...

La mia stanza è un immoto
carcere d'ombra ove io sento
battere battere a vuoto
le pale del Tempo che in ozio consumo.
Il vento
anima l'infinito
silenzio di profumo.
Improvviso come un nitrito 
nell’ombra squilla il telefono...

«Pronti! Pronti!» Lo specchio 
a parete, murato nel tepore 
delle stoffe, riflette l’apparecchio 
nell’ombra paolotta. 
L’apparecchio borbotta: 
«Pronti pronti! O mio amore!»

«Pronti! Pronti! Amor mio,
sono giunta stamani.
Ora siamo lontani.
Sono triste» (un contatto) «amore mio!»
«Per quanto tempo! Mi angoscia...»
Ascolto. E l'occhio in giro percepisce
le cose che non guardo:
il gesto or lesto or tardo
dei falciatori e il fieno che si affloscia
sotto le falci lisce...
«Mi angoscia questa vita di bugìa
con l'uomo che non amo e non capisce;
cui fingo. Oh! come ti amo, anima mia!»

Penso la sua bocca leggiadra
nel cerchio nero del trasmettitore,
la sua bocca d'amore
ladra.
Penso il braccio rotondetto
sopra il tavolinetto;
dentro l'alcova il letto.

«Oh! fuggire da quella gabbia!
Correre nelle tue braccia!»
Quanto resta la traccia
di un nome sulla sabbia,
tanto nel cuore umano
le parole che vengono di lontano...

«Son triste. Quest'asilo
è da gufi - Tu sei lontano e poi...»
Gorgoglia l'apparecchio
schernevole all'orecchio;
ora parlo, ora ascolto...
Odo la voce ma non vedo il volto...
E il filo il filo il filo
infinito tra noi...

(Da "Gli orti", Alfieri & Lacroix, Milano 1918)





TI DICEVO AL TELEFONO 
di Elio Pagliarani (1927-2012)

Ti dicevo al telefono (di cui 
più mi prendono le pause, gl’imbarazzi 
docili, e se ci udiamo respirare) 
ti dicevo al telefono un amore 
che urge, e perché. 

(Da "Tutte le poesie: 1946-2005", Garzanti, Milano 2006)





ER TELEFONO
di Trilussa (Carlo Alberto Salustri, 1871-1950)

Co' quello antico? Vergine Maria! 
Giravi per un'ora er girarello 
e, se volevi un oste, sur più bello 
te risponneva quarche farmacia.

Invece mó, coll'urtimo modello, 
chiami cór deto, parli e tiri via, 
che se tu vedi la signora mia 
ce se diverte come un giocarello.

Jeri, presempio, appena s'è svejata 
ha bevuto er caffè cór rosso d'ovo 
eppoi s'è fatta la telefonata.

E manco ha preso in mano l'apparecchio 
ch'ha liticato co' l'amante novo 
e ha fatto pace co' l'amante vecchio.

(Da "Poesie scelte", Mondadori, Milano 1951)





TELEFONO PIÙ RADIO
di Cesare Vivaldi (1915-1999)

Dì che è tardi. Baciamoci
nel frettoloso telefono.
Disperdi pure il grigio
della tua voce,
non temere il silenzio.
Lieve continui ad abitarmi accanto,
respirando in un valzer
di cristallo, che in nitidi
tocchi s'estingue.

Serro il capo tra i gomiti. Un cavallo
bianco fende la nebbia,
opaco s'allontana,
si distingue dall'ombra
appena per un palpito lieve.

(Da "Poesie scelte: 1952-1992", Newton Compton, Roma 1993)




Sergei Vishinsky, "On the telephone"