domenica 2 novembre 2014

Novembre in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Novembre, penultimo mese dell'anno, detto anche "mese dei morti", perché nel suo secondo giorno ricorre la commemorazione dei defunti. Per quanto mi riguarda, ho sempre amato Novembre, che viene troppo spesso descritto in modo negativo, con aggettivi che si rifanno a sentimenti tristi. Purtroppo, negli ultimi anni a Novembre sono accaduti eventi climatici e atmosferici tali da renderlo ancor più odioso. Ma se accade questo, se le piogge sono sempre più abbondanti e violente, se si susseguono alluvioni, bombe d'acqua e quant'altro, è veramente colpa di Novembre? Non c'entra nulla l'uomo? Comunque la pensiate, ecco 10 poesie di 10 poeti italiani dell'Ottocento, in cui Novembre viene descritto con quel romanticismo che ancora era di moda in quel secolo per noi così lontano. Com'era bello, allora, il Novembre!



NOVEMBRE
di Fausto Bonò (1832-1890)

Stavamo alla finestra,
Ed attraverso i vetri
Vedevansi grigi e tetri
Gli orti, le case, il ciel;

Mentre le morte foglie
Che con fioco lamento
Fea turbinare il vento
Portava il fiumicel.

Noi tacevam: tremando
Sulla chiusa vetrata
Dall'alito offuscata
Io scrissi: - T'amo, e tu? -

Ella arrossì: col dito
Scrisse non so che cosa,
Ma il ciel si tinse in rosa,
Altro non vidi più.

(Da "Poesie edite e inedite", 1890)





AL PITTORE LORENZO DELLEANI
di Giovanni Camerana (1845-1905)

Conoscete in Val Pesio il paesello,
Il grigio guardian della vallata?
Incubo e spia, gli sovrasta il castello
Dalla montagna squallida e bruciata.

Strepitante di sol, taglia il murello
I bitumi e le ombrìe della borgata,
E il campanile scintillante e snello
Fende l’aria autunnale immacolata.

È il giorno sesto di novembre, è l’ora
In cui fumano i tetti, e barcollando
L’enorme disco rovente si affonda

Nel zaffir delle gravi Alpi; e tu ancora
Una volta, sognando e contemplando,
Stampasti la virile orma profonda.

(Da "Poesie", 1968)





NOVEMBRE
di Giuseppe Deabate (1857-1928)

Da gli alberi le foglie ad una ad una
Con mesto crepitìo cascano giù:
Così è caduto l'amor mio; nessuna
Dolce speranza in cor palpita più!

Passò l'estate, ahimé! l'ore gioconde...
Il sorriso dei miti occhi passò;
Venne la pioggia delle foglie bionde,
E l'inverno del cuor seco portò.

(Da "Il canzoniere del villaggio", 1898)





LA FINE VOLGARE E TENERA
di Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943)

Le povere viole hanno un lontano
odor di morte che mi fa sognare:
violettine di novembre rare
portemi dalla tanto amata mano!

Ella le tolse — oh vi morìan sì bene! -
dalla pelliccia della sua mantella:
le violette nella mano bella
avevano il color delle sue vene:

care pallide vene ove già tanto
s'indugiò la bocca disiosa:
care pallide mani ove il mio pianto
cadea come rugiada entro una rosa.

Io le dissi: Amor mio, ti sovverrai,
ti sovverrai di me, sempre? Sorrise
ella, la mano dalla mia divise,
— oh! il sorriso più triste che fu mai -

e mormorò misteriosamente:
Si; per sempre: ricordati anche tu...
Io non risposi, io non risposi più...
Mi figurai la cara bocca assente,

la cara mano ad altre strette unita:
e un dolore cocente, una paura
della mia solitudine futura
mi traboccò nell'anima smarrita.

Strinsi la mano gelida, la mano
spoglia del guanto; e le dissi: Perdona,
quanto cattivo io fui, tu che sei buona,
tu che tenera sei, quant'io fui vano...

Ti sovvenga di me come di un mite
ricordo, di un amor dolce, o diletta:
o mille e mille volte benedetta
l'anima che fu vostra benedite.

Oh! il sottil gesto! Ella tolse dal petto
le violette di novembre, rare:
eran fresche così, d'un violetto
così molle, così piccole e chiare,

ch'io ripensai le sue piccole vene
tramanti l'epidermide sottile,
e la dolcezza del "Ti voglio bene„
detto altre volte al polso signorile.

Con strider lungo un tram sopravveniva:
ella alzò il braccio, lenta, in gesto lento:
mentre il tram si fermava, io lo rammento,
vidi che il dolce viso impallidiva.

Poi salì: mi gettò come un addio
il suo profumo di viole rare:
e fu la fine tenera e volgare
che la tolse al mio sogno e all'amor mio.

(Da "Il convegno dei cipressi", 1894)





TRISTEZZA DI NOVEMBRE
di Arturo Graf (1848-1913)

La prima neve imbianca
La sommità del colle:
Scende una pace stanca
Sulle mietute zolle.

Di trilli e di richiami
Più non risuona il bosco.
Oh, lo squallor dei rami
Nell’aer freddo e fosco!

La dïafana spera
Dello stagno sopporta
Qualche piuma leggiera
E qualche foglia morta,

E fa veder, raccolti
Nell’orbe che la chiude,
Gli spettri capovolti
Delle arbori ignude.

Fuor della rupe cava
Querulo il fonte sgorga;
Ma fiore più non lava
Che in suo margine sorga.

L’aere impigrito e denso
Smorza la luce e il suono;
Spira ogni cosa un senso
Di tedio e d’abbandono.

D’una tristezza greve
L’anima mia s’ingombra:
Ecco la prima neve,
Ecco il silenzio e l’ombra.

Tornerai tu, se l’ôra
Blanda t’inviti, o maggio?
Rinverdiranno ancora
L’olmo, la quercia, il faggio?

Rinverdiran quei salci
Che dalla sponda a gara
Lentano i molli tralci
Sull’acqua muta e chiara?

Si copriran di novi
Fiori la piaggia e il brolo?
Rispunterà tra’ rovi
Il tenero giaggiolo?

Come novella sposa
Che s’alzi alla mattina,
Risorgerà la rosa
Dalla sua verde spina?

Faran da stranii lidi
Le rondini ritorno?
Pigoleranno i nidi
Al rinnovar del giorno?

O dolce primavera,
E tu che tanto amai,
Solitudine austera,
Vi rivedrò più mai?

D’una tristezza greve
L’anima mia s’ingombra:
Ecco la prima neve,
Ecco il silenzio e l’ombra.

(Da "Medusa", 1890)





LA GRIGIA NEBBIA DI NOVEMBRE...
di Olindo Guerrini (1845-1916)

La grigia nebbia di novembre ammanta 
Del paterno villaggio i casolari, 
Stridono i tizzi verdi in sugli alari, 
Geme il vento di fuori e il corvo canta. 

Oggi le donne pie disser la santa 
Prece dei morti a piè de' bruni altari, 
Ogni pietra, ogni croce oggi è compianta 
Dove dormon sepolti i nostri cari. 

Ma sono agli altri questi dì men gravi, 
Ma lieto il padre narra oggi al figliuolo 
Le antiche gioie e le virtù degli avi, 

Ma l'amor, la famiglia ad ogni duolo 
Recan oggi conforto e più soavi 
Sono i sorrisi, i baci... ed io son solo. 

(Da "Postuma", 1878)





NOVEMBRE
di Costantino Nigra (1828-1907)

Sull'irte stoppie dei mietuti campi
nella pianura grigia
la pioggia senza tuoni e senza lampi
scende lenta continua.

Come cappa di piombo, a poco a poco
s'abbassa il cielo. I villici,
nelle capanne affumicate, al fuoco
tendon le mani e guardano

per l'uscio aperto l'acqua che giù cade.
Ma l'affamata greggia
resta nei campi a divorar le rade
erbe del magro pascolo

nere di mota. Irrequieto attento
gira d'intorno e vigila
il cane, e su pel dorso ispido il vento
gli arruffa i peli ruvidi.

Ritto, appoggiato sul bastone, come
sentinella fantastica,
sta il pastor col cappuccio in sulle chiome
immoto all'intemperie.

Nella tasca ha la povera sua mensa,
dura ha la faccia ed ebete,
non favella, non opera, non pensa,
guata stupido ai nuvoli.

O vezzose Amarilli, o bionde Clori,
dai guarnelletti rosei,
o guinzagliate di nastrini e fiori
linde agnellette candide,

ecco il vostro Lindoro! Ahi! Sulla testa
ricci non ha né cipria,
e non vi mena ghirlandato a festa;
ai piedi nudi ha i zoccoli.

Ma dalla pieve suona il vespro. Ei piega
nel fango le ginocchia
e si fa segno di croce e prege.
Cade lenta la pioggia.

(Da "Idilli", 1893)





NOVEMBRE
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Gemmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
                   senti nel cuore...

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
                   sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
                   fredda, dei morti.

(Da "Myricae", 1900)





NOVEMBRE
di Gabriele Rossetti (1783-1854)

Lascian gli alberi le spoglie
al venir dei dì brumali:
come cadono le foglie
così cadono i mortali;
ed ognuna, allor che scende,
par che dica a chi l'intende:

«Uom che passi, in me ti specchia,
se comprenderlo pur sai:
come fronda che s'invecchia
nel terren tu pur cadrai:
gioventù, se l'hai, si perde:
nell'estate anch'io fui verde».

Leve foglia, a te risponda
chi si sente un'alma in seno:
il mio corpo è gracil fronda
che rientra nel terreno:
tutto annunzia, a me d'intorno,
ch'indi venni e là ritorno.

Ma ragion che in me prevale
dice, unendosi alla fede,
ch'ho uno spirito immortale
come Quei che me lo diede:
torna al suol, ch'io tendo a Dio,
tu sei foglia, ed uom son io.

(Da "Poesie inedite e rare tratte dagli autografi", 1929)





NOVEMBRE
di Ulisse Tanganelli (1853-1931)

Distillano le rame a goccia a goccia
La lor malinconia nel tempo dolco;
È giallo d'acqua nei maggesi il solco,
E il primo verde del frumento sboccia.

Zirlano i tordi in cerca mattutina
Di ginepri odorati; il pettirosso
Torna alle siepi nella chiusa villa.
E fitta fitta un'acquerugiolina

Sopra il gran lutto del saturnio dosso
Piange l'occhio del ciel senza pupilla.
Non aura spira, né virgulto oscilla;

Tace d'intorno ogni tumulto umano,
Ma con singhiozzi di dolor silvano
Il rio percorre la materna roccia.

(Da "La buona dea", 1892)

Novembre in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Ed ecco Novembre secondo i poeti italiani del Novecento. Si nota un insistente riferimento alla caduta quasi totale delle foglie dagli alberi; al vento che, spesso presente, soffia senza requie e disperde le foglie in terra; alla scarsa presenza di fiori; ai primi freddi che annunciano già l'imminente inverno... Ma, come spiegano altri versi, Novembre può ancora offrire delle belle giornate, anche se nel "cielo pacato" il sole è divenuto freddo, e non riesce più a scaldare chi ancora avrebbe tanto bisogno del suo calore; così, anche nei giorni soleggiati, affiora un senso di tristezza, e fa capolino "un sommesso piangere senza volto".


NOVEMBRE
di Corrado Alvaro (1895-1956)

Novembre, fa freddo qui in terra
e vogliono gli augelli fuggir;
attendono i morti sotterra
quegli altri che devon morir.

(Da "Il Viaggio", 1999)





ELEGIA DEL NOVEMBRE
di Carlo Betocchi (1899-1986)

Dall'immortale pace
sorge vergine morte
e reca, al fin d'autunno,
sulle vigne contorte
i venti senza pace
e il vel notturno.

Il puro firmamento
in più luoghi maltisce,
e delle stelle il raggio
cela tra ombrose striscie
con il suo sentimento
alto e selvaggio.

Mena tra i giunchi e il nulla
per desolate piaggie
fiume che va diserto:
e l'alma roccia piange
l'onda, dov'ebbe culla,
in giogo aperto:

e la pigra fanciulla
che va cuore felice
coglie lungo la sponda:
non s'agita né dice
con la sua bocca brulla,
e in cuor le affonda.

Ma se alle case sue,
queste bagnate e frolle,
viene vergine morte;
che appaiono sul colle
tra le nebbie e son pure
apparse e morte:

qui, nel mio cuor, conserva
la colomb'alba un nido
bianco, com'ebbe l'ale:
che già, stamani, il fido
vol suo raccolsi, all'erma
montagna australe.

(Da "Tutte le poesie", 1984)





NOVEMBRE
di Gherardo Del Colle (1920-1978)

Gli alberi sono rimasti senza foglie
e gemono al vento che le sparpaglia;
si trattiene ai tuoi occhi quel color di paglia
arido, che s'affolta alla tua soglia.
Se nella strada tu procedi, ascolti
che al tuo piede s'infrange
quasi un sommesso piangere senza volto...

(Da "Il fresco presagio", 2008)





NOVEMBRE A PESTO
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Ci furono le rose
un tempo, gli asfodeli.
Ora passa nei cieli
il cielo che rispose 

alla notte degli anni,
alle paludi,ai morti.
Ci restano più forti
del tempo questi inganni

della dolce stagione
E il povero che vede
fermarsi sul suo piede
il sole, già s'espone

al suo sorriso cieco.
Felice si somiglia,
balbetta con le ciglia
il soliloquio greco.

Poi trova il freddo, stretto
nelle stesse parole
con cui si scalda il petto.
A non volere vuole

il fondo del bicchiere.
La morte porge al nonno
degli anni sul braciere
di cenere quel sonno.

(Da "Tutte le poesie", 2005)





MOLTE VOLTE NOVEMBRE È RITORNATO
di Margherita Guidacci (1921-1992)

Molte volte Novembre è ritornato
Nella mia vita, e questo che oggi ha inizio
Non è il peggiore: quieto
Benché non privo di apprensioni. China
Mi trova su una culla, dove l'ultima
Mia nata dorme il misterioso
Profondo sonno dell'infanzia, ancora
Ospite più che cittadina in questo
Nostro mondo per lei straniero. Sento
La dolce ondata del latte salirmi
Al seno: tenerezza
Che di sé gonfia tutte le mie fibre,
Dilata i miei confini. Qui lo stanco
Sangue si rifà puro a una segreta
Sorgente, si rifà vergine e può
Calmar la sete di vergini labbra.
Il mio corpo è strumento di miracolo
Come già fu nel dare vita. Il seno
È la collina favolosa, scorrono
I fiumi d'abbondanza in un'età
D'oro, che segnerà
Per la creatura ignara il più profondo
Alveo della memoria, a cui più tardi
Ritornerà nel sogno o nel dolore...
Per lei intatta è l'immagine; per me
Che ne sono occasione, la scolora
Già il tempo, amaramente. È forse l'ultima
Volta che ho un figlio al seno, poiché incalzano
Gli anni ad inaridire
La mia linfa. Oggi sono
Ancora un vivo albero, frusciante
Di foglie, benedetto
Di succhi, ma in cammino è la stagione
Spoglia che su di me si chiuderà.
Tanto più dolce è questa sosta, prima
Ch'io stessa sia l'autunno: pure un'ombra
Di presagio la vela e di paura.
Il passo si stende alle mie spalle
Come una lunga via. So del futuro
Solo una cosa: che difficilmente
Potrà uguagliare per me la durata
Del tempo ch'è trascorso.

(Da "Le poesie", 1999)





NOVEMBRE
di Sergio Ortolani (1896-1949)

Vedo la casa tua china sugli orti
maceri, il fiume gonfio, il cielo scuro;
e pensosa seguir ti raffiguro
le foglie morte giù dai rami morti.

Anch'io recluso medito le lente
ore. La pioggia tremula s'adagia.
L'ombra bianchiccia come la bambagia
ricolma le contrade sonnolente.

Esco, e ti penso. Vedo il tuo vestire,
ma contro voglia, neghittosamente.
T'aspetto in piazza tra la poca gente
che borbotta: comincia a rinfreddire.

Ecco, tu passi, bianca fuggitiva,
lieve falena delle nere strade;
e sul mio sguardo che ti brucia viva
sento il tuo sguardo, gocciola che cade.

(Da "Poesie", 1957)





NOVEMBRE
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

Dei giovani e dei vecchi
si raggruppano
fra le rovine calde di Roma
su cui i platani lasciano cadere
con frusciare di carta
le loro foglie dorate.
I giovani
fanno sapere ai vecchi
quello che a loro piace
e i vecchi
fanno finta di non sentire.

(Da "Cuor mio", 1968)





SOTTO IL CIELO PACATO DI NOVEMBRE
di Sergio Solmi (1899-1981)

Sotto il cielo pacato di Novembre
come nette profondano le linee
dei rettifili, preciso lo spigolo
dell'edificio l'ombra della luce
scompartisce, e beato posa l'albero.
Avrei voluto apprendere cotesta
tua chiarezza infallibile, meriggio
senza una nube, che a questo discreto
ed ovvio paesaggio cittadino
imprimi oggi un rigore architettonico
quasi di tela neoclassica. Invece
cancellarmi vorrei, tanto mi sento
un estraneo accidente in queste splendide
tue geometrie, non più che una confusa
macchia, una pena, un vagabondo errore.

(Da "Opere", 1983)





PRINCIPIO DI NOVEMBRE
di Carlo Stuparich (1894-1916)

O freddo sole di novembre, soltanto ricordi mi scalda in questo corpo rabbrividente. La mia vita ronza tutta dentro; guarda i miei occhi, ti pare che vedano la storia del prossimo, o quanto da godere darebbero quelle onde di carne femminile? La mia carne, se la tocchi, ti spaventi del suo poco fermento: è un ingombro di corpo che pesa brutamente sull'esilità nostalgica della mia anima.

Camminando fra due muri secchi - vi pendono tralci di vite intisichita, pampini rossi come gote assai febbrose - sento che la mia vita è tutta qui in questa solitudine soleggiata a freddo. In nessuna parte ho lasciato lembi della mia persona. Qui raccolgo e stringo tutta la mia anima come un lenzuolo piegato fittamente che odora di fresca lavanda.

(Da "Cose e ombre di uno", 1968)





ELEGIA DI NOVEMBRE
di Rina Sara Virgillito (1916-1996)

Se talvolta dalle ripe nebbiose si desti il richiamo;
se dal viluppo, fogliame di porpora e d'ombra
al fiume compagno, talvolta il richiamo ti giunga -
solitario, lontano, in questo morire dell'autunno -

oh ricorda: la primavera è perduta,
sfinita l'estate, anche il cielo dell'autunno
è consumato,

eppure eterna rimane, tra queste forme che sanno,
la sosta fuggitiva; le nostre vite si svolgono
in questi luoghi solo: inestricabili, intatte,
in un presente senza tempo al di là del presente.

(Da "I giorni del sole", 1954)



NSG-Wohldorfer Wald, Herbstnebel, 21 novembre 2016
(da questa pagina web)


sabato 1 novembre 2014

Il giorno dei morti in 10 poesie di 10 poeti del XIX secolo

Oggi è il Giorno dei Morti e io, dopo tanti anni che non lo facevo più, mi sono recato al cimitero di Ostia Antica. Avrei voluto visitare almeno una delle tombe in cui giacciono i corpi dei miei parenti, ma non ho potuto farlo: non ricordo più dove esse si trovino (se ci sono ancora). Allora ho vagato lungo le stradine del camposanto, osservando, di tanto in tanto, le lapidi che erano nei pressi. Erano le tombe di tante persone anziane, i cui cognomi mi sono spesso familiari; c’era anche qualche giovane, deceduto già da molti anni. Mentre mi aggiravo nel cimitero, dal cielo grigio è cominciata a cadere qualche goccia di pioggia. Ho pensato: in questo giorno la pioggia non poteva mancare. Ma quando l’intensità della precipitazione piovosa è aumentata, non avendo con me un ombrello, me ne sono andato piuttosto velocemente. Tornato a casa, ho pensato ai miei cari morti. Quante sono le anime assenti, che una volta vedevo quasi tutti i giorni, e alcune di esse mi volevano bene (io glie ne ho mai voluto?). Di loro, mi restano soltanto i ricordi (ogni anno più sbiaditi). E, considerata la mia profonda, irreversibile solitudine, si affaccia sempre di più in me una smania di raggiungerli al più presto: di entrare nel nulla dal quale provengo, e al quale - forse presto - ritornerò. 




DUE NOVEMBRE

di Vittoria Aganoor (1855-1910)

Oh se potessi ancora
sognar! ridirmi ancora:
— egli m'ama, egli pensa
a me, sempre; egli guarda
questi limpidi giorni e pensa a me;
guarda queste serene
notti, ed incontro sempre
l'innamorato suo pensier mi viene!
questa lucente vita
non gli par bella se non per me sola,
e con me sola; tutto l'altro ormai
follia, follia, follia,
e nessuna parola
lo accende e lo consola
se non gli viene dalla bocca mia.
Quando verrà l'inverno
coprendo il cielo d'una bigia trama
di nuvole, e cadranno
le lunghe piove e le melanconie
sovra la terra; intorno a me, ch'egli ama,
sarà il sole, una calda onda di sole,
l'ardente soffio dell'intensa brama,
la viva vampa delle sue parole
intorno a me, ch'egli ama!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ecco Novembre; s'aprono
i cimiteri. Oh se potessi ancora
sognar! L'inverno viene
ed il sol ci abbandona.
Oh se potessi ancora
sognar! L'inverno viene
ed il sol ci abbandona.
Cadon le pioggie lente,
s'aprono i cimiteri;
una campana suona
interminabilmente.

(Da "Poesie complete", 1912)





DUE NOVEMBRE
di Peleo Bacci (1869-1950)

Al giardiniere ho chiesto
perché l'ultime rose
cogliesse giù nell'orto,

ed ei col viso mesto
guardandomi, rispose:
- Pel mio bambino morto. -

E mentre al taglio eguale
cedeva la fiorita,
egli di tanto in tanto

la cocca del grembiale
prendeva colle dita
e s'asciugava il pianto...

(Da "Dai nostri poeti viventi", 1896)





I MORTI
di Giulio Carcano (1812-1884)

Dall'olmo solitario 
Le foglie inaridite 
Cadon sull'erba pallida; 
Già d'autunno la vesta ingombra il suol: 
Ma piove ancor col mite 
Ultimo raggio la sua gioia il sol. 

Più la canzon de' poveri 
Per l'aer non batte l'ale: 
Ma vive le memorie 
Albergano nel nido del dolor; 
Bagna il pianto mortale, 
In sacra terra, i pochi ultimi fior. 

Oh! chi non ama il memore 
Giorno de' mesti addii? 
Cui non è sacro l'angolo 
Ove dorme la madre ed il fratel? 
La prece umil, da' pii 
Sepolcri ascende, come incenso, al ciel. 

E possente dai tumuli 
Tuona il grido de' morti, 
Custodi della patria, 
E virtù desta de' viventi in cor. 
Ove dormono i forti, 
Là veglia sempre l'occhio del Signor.

(Da "Poesie edite ed inedite", 1895)





O VOI CHE NE LE FOSSE UMIDE E NERE
di Giuseppe Chiarini (1833-1908)

O voi che ne le fosse umide e nere
o sotto i marmi candidi dormite,
oggi un sordo romor per le severe
tacite sedi errar non lo sentite?

Oggi è il dì che i viventi in lunghe schiere
traggon pensosi e muti a le romite
vostre dimore; ed hanno in man fiorite
ghirlande, ed hanno in cor pianto e preghiere.

Anch'essa, o morti figli, anch'essa viene
oggi la madre vostra al cimitero,
porta anch'essa ghirlande al rito mesto;

ghirlande e pianto. Io no: dove conviene
molta gente, non vado: in casa io resto
a ragionar di voi col mio pensiero.

(Da "Lacrymae", 1880)





2 NOVEMBRE
di Renato Fucini (1843-1921)

Tornai! le lane sulle usate spalle,
Scende la brina dalle alture bianche;

Cadono in pioggia al suol le foglie gialle,
Suonano a morto le campane stanche.
Salute a noi dalle infiorale ajuole,
Dai marmi ghiacci dell'ospizio estremo!...

Cianciano i vecchi, sonnecchiando, al sole;
Vanno i malati pallidi a San Remo.

(Da "Le poesie di Neri Tanfucio", 1920)





DUE NOVEMBRE
di Pietro Gori (1865-1911)

Quante memorie, o Bice,
in questa notte buia e sconsolata!
Oh d'una infanzia garrula e felice,
      larva sfumata!

Oh fantasie gioconde,
ribelli al ritmo di studiato verso,
erranti strofe, nenie vagabonde
      de l'universo!

Oh per li elbani clivi
carme infinito di geniali accordi!
eravamo sì baldi e sì giulivi;
      te ne ricordi? 

Te ne ricordi? a piaggia 
de l'ondata vanìan le brume stanche; 
salpavan da la ripa erma e selvaggia
      le vele bianche.

Tu eri piccolina,
gaia, gentile; io ruvido monello;
oh infantil bisbiglìo d'ogni mattina,
      com'eri bello!

O Bice, ho ripensato,
stanotte, le paure d'altre volte,
le fole udite, mezzo addormentato,
      lugubri e stolte.

Nella notte dei morti 
in sogno rivivean quelle leggende, 
scendean di scheltri, da l'avel risurti,
      fosche tregende.

La visïon spettrale
riddava al mesto suon de le campane,
novellanti nel buio a funerale
      favole arcane.

Oggi non più. L'affetto
solo rivive memore al dolore,
oggi son morte le paure, e in petto
      non trema il core.

Eppur, deh, s'io vorrei
di nostra infanzia la illusione pia!
ma la tua fede nei moderni Dei
      non è più mia.

Ahimè! se fosse vero,
che un trapassato spirito errabondo
potea stanotte uscir dal cimitero,
      e gir pel mondo;

ei ben sarìa venuto,
il tuo mesto Luigi a la prigione,
m'avrìa portato il bacio ed il saluto
      de l'alme buone.

Ahi! muta è la sua tomba,
chiusa dal gelo nel silenzio eterno,
e la tragica squilla oggi rimbomba,
      come uno scherno.

Stanotte, o Bice, invano
nel mio carcer movean le ricordanze,
invano a requie un suon tessea lontano
      macabre danze.

Ma l'aerea cöorte
de li spirti ne' miei sogni non scese,
non temo più dai morti e da la morte
      ire od offese.

Da che i vivi crudeli
m'ebber, pel mio pensiero, i polsi avvinti,
se pur non credo ne li empirei cieli,
      amo gli estinti;

amo questa serena
folla di atòmi, cui morte travolve;
corrosi anelli d'immortal catena,
      perpetua polve.

E so ben che la vita
è un episodio ratto e passeggiero,
un'audacia di brame inassopita,
      un sogno altero;

ma so pur che, se il flutto
de l'essere, onde l'uom soffre, o gioisce,
è materia che palpita, non tutto
      con lui finisce.

L'umanità non muore,
e i ruderi di noi serba immortali,
perpetüando i nostri odî, l'amore,
      il fango e l'ali;

ali di cherubino,
torve passioni, aurore scintillanti,
di libertà radiosi in sul cammino
      martiri e santi.

Qui l'averno o l'eliso
son la fraterna pace, o l'aspra guerra;
lotta il veggente, e vuole il paradiso
      qui sulla terra.

Ma tu, sorella, speri,
levando prieghi supplici e devoti,
ch'ei viva in grembo ai fulgidi emisferi
      di mondi ignoti.

Non io. Pur se il tuo pianto
men triste è al raggio de l'antica fede,
prega, sorella, nè ti offenda il canto
      di chi non crede.

(Da "Prigioni", 1911)





OGGI È IL GIORNO DEI MORTI...
di Giacinto Ricci Signorini (1861-1893)

Oggi è il giorno dei morti. Ed una densa
Nebbia le cose intorpidisce, e serra
Il cielo tetro e livido.
L'anima tace nel mister: non pensa;
Quasi smarrita in questa fredda terra.

Solo percorro sul mattin le logge
Del cimitero; a poco a poco miro
Indifferente e rapido,
Adornarsi le tombe in nuove fogge:
Ma la tua tomba è lunge al mio desiro.

Come è vuoto il mio spirito! Non trema
Al fluir di quest'ora triste; e pare
Anche il creato esanime;
E che per l'aria senza sol mi prema
Come un silente transito di bare.

Or delle cose seppi la profonda
Vanità, la fuggevole parvenza:
Tutta scopresi l'intima
Fibra bestiale, nauseosa, immonda,
Che invigorisce questa nostra essenza.

E a che la lotta disperata agogna,
E la rabbia implacabile, omicida?
Son come al vento polvere.
Ronza d'intorno acuta la menzogna,
Ma non mi curo, se il mio cuore uccida.

Operi l'uomo a suo capriccio. Alcuna
Speranza non richiamo: il vento forte
Dentro i cipressi sibila.
Tesso la tela della mia fortuna,
Calmo, aspettando il bacio della morte.

(Da "Poesie e prose", 1903)





NEL DÌ DE' MORTI
di Igino Ugo Tarchetti (1839-1869)

I.
suonano a festa: olezzan di viole
Le morte zolle e si allegra la terra;
Cantano augelli, sfogliansi le aiuole...
Tacciono i morti e dormono sotterra.

Inverno riede; Autunno, come suole,
L' ultime gemme de' fiori disserra,
Ronzano insetti e volteggiano al sole...
Tacciono i morti e dormono sotterra.

Dormono stesi, immobili, stecchiti
Nell'umido, che stilla entro la fossa,
Col lenzuol roso e co' stinchi imbianchiti.

O padre mio, una voce mi dice
E mi suona nell'anima commossa
Che tu sei morto e non fosti felice!


II.
Che felice non fosti! E questo ingrato
Rimembrar che la mia vita addolora,
È il rimembrar che de' tuoi cari il fato
Non allieti la tua fredda dimora;

Ma dimmi, per le lacrime, che dato
Mi fia versar su la tua fossa ancora,
D'un'altra vita, in forme altre rinato,
Vedesti o vedi una più lieta aurora?

Dimmi: pel duolo ond'è l'anima oppressa
Per il negro avvenir, che m'impaura,
È una mercede alla virtù concessa?

Ma tutto è muto! — Il sol dall'alto sferra
Gl'ultimi raggi, e sorride natura... 
Tacciono i morti e dormono sotterra.

(Da "Disjecta", 1867)





LE CAMPANE DEL 2 NOVEMBRE
di Giuseppina Turrisi Colonna (1822-1848)

È la voce degli angeli e dei morti,
E dei secoli il pianto e di Natura,
Che noi, nel sogno della vita assorti,
Ad altro viver chiama, ad altra cura!
Ah tu, squilla mestissima, conforti
I languidi pensier della sventura;
Tu m'insegni a soffrir, tu mi riveli
Che fugge il duol, fuggono i dì crudeli.

Coi prischi vati, coi guerrier, con Dio
Vissi fuor della terra e de' suoi mali.
Chi mi destò dall'incoscente oblio?...
Ah, chi mi tolse la speranza e l'ali?...
Nell'audacia di nobile desìo
Bramai cangiar la sorte dei mortali,
Render tutti felici: ahi! tutto in pianto
Miro, e dei giorni miei rotto è l'incanto.

No, non vorrei coi morti e nell'orrore
Di gelido sepolcro addormentarmi;
Vorrei, come rugiada in grembo al fiore,
In grembo a rosea nuvola celarmi,
Piangere, amar, pregare, in fin che fuore
Me dal recesso mio, gli altri dai marmi
La novissima tuba un dì ridesti,
E n'apra i tabernacoli celesti.

Fuggir sopra una nube! ad ogni umana
Cosa fuggire è un nobile deliro,
Un sogno eterno, un'esistenza arcana,
Un mesto placidissimo ritiro.
Esser viva, esser sola, esser lontana,
Desìata nel mondo e nell'empiro,
Mistero a tutti, nota sol nei canti,
Ebbrezza di cherùbi, amor di santi!

Ecco: dell'aurea nube armoniosa
Veglio la Patria mia, desto gli eroi,
Parlo a' miei cari, e tenera, pietosa
Memoria sono al cor gli affetti suoi.
Lungi, o cari, da voi, solo riposa
Chi troppo e invano s'agitò per voi;
Addio per sempre... E tu di là tranquilla
Ripeti il mesto addio, funerea squilla.

(Da "Poesie", 1915)





POVERI MORTI!
di Annie Vivanti (1868-1942)

In lugubre cadenza le campane
Vogliono ricordarci i nostri morti;
E noi, che pure vi crediam risorti,
In vesti nere andiamo al Camposanto,
A rammentarvi che v'amammo tanto,
         Poveri morti!

Vedeste quanti fiori vi rechiamo!
D'ogni foggia e color, croci e corone!
De' fiori freschi non è la stagione
(Che vivon tutt'al più una settimana),
Ma quelle di perline o porcellana
         Son di durata!

Se gli occhi aveste ancor, poveri morti,
Sui vostri marmi leggereste tutto
L'amor che vi portammo e il nostro lutto.
Ed anche un grande elenco di virtù
Che forse voi non ricordate più
         D'aver avute.

Ma si fa tardi. Al caso un altro Requiem
In carrozza al ritorno è presto detto,
O guai! con questo freddo maledetto
Si corre il rischio di pigliar malanno.
Che autunno indiavolato abbiam quest'anno!
         — Cocchiere, a casa. —

(Da "Lirica", 1915)

Il giorno dei morti in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Il giorno dei morti, nei ricordi lontani della mia infanzia, era destinato – come da tradizione – alla visita delle tombe dei cari defunti nei cimiteri. Io, insieme alla mia famiglia, andavo al cimitero di Ostia Antica, dove, in verità, c’erano le tombe di parenti che non conoscevo affatto, o perché troppo lontani, o, nella maggior parte dei casi, perché erano deceduti prima che io nascessi. Quel luogo non mi appariva triste, al contrario piuttosto allegro, sia perché per me, andarci, rappresentava soltanto uno svago, sia perché vi erano tanti fiori colorati, difficilmente rintracciabili in altri posti nei dintorni. Il giorno dopo, a scuola, la maestra puntualmente ci faceva fare un tema sul giorno dei morti.




2 NOVEMBRE

di Arnaldo Beccaria

Le dimore dei morti, i bianchi marmi,
oggi l'amore dei viventi adorna
di colorati fiori e di fiammelle.

(Da "Sull'orlo del cratere", 1966)





IL GIORNO DEI MORTI
di Carlo Betocchi (1899-1986)

Sarà fatto di dolore
questo giorno anche nell'alba,
quando l'aria al colpo duole
di chi mura e spacca in palma
pietra al suo vero colore
che va in polvere, si calma.

Dentro i taciti conforti
dell'odore in cui si monda
la beltà breve degli orti
che di muri si circonda,
sovra i banchi, in verdi assorti,
l'erba in fiore ha la sua tomba.

Sarà voce come cera
che vanisce mentr'è giorno,
che ritorna nella sera
delle case, al suon profondo
d'una provvida preghiera
mormorata in crocchio tondo.

Sarà a lei trafitta a morte,
che da questo in altro giorno
verrà un lume anche più forte
d'ineffabile ritorno,
voce d'anima, a una sorte
sconosciuta in questo mondo.

(Da "Tutte le poesie", 1984)





DUE NOVEMBRE
di Giuseppe Casalinuovo (1855-1942)

Alzati, è tardi. Già fin dentro l'orto
è giunto il sole e suona la campana,
come un'eco di cose assai lontana,
suona da un pezzo, tristamente, a morto.

Ho raccolto assai fiori, guarda. Ancòra
le corolle son cariche di brina,
li ho raccolti per tempo, stamattina,
prima del sole e prima dell'aurora.

Prendi i tuoi fiori: questi, questi... e questi
sono per me. I tuoi ceri, ecco, e i miei ceri;
ora tu va di là pei tuoi sentieri,
io piglio a manca i miei sentieri mesti.

Oggi è il sol giorno che si fa due strade,
e si va soli, ognun per la sua via,
perché la mèta tua non è la mia:
abbiamo due sepolcri in due contrade.

Baciamoci, e ricorda il crocivìo:
noi qua ci rivedremo verso sera,
dopo che avremo detto la preghiera
pei nostri morti. Un altro bacio, e addio.

(Da "Giornata breve", 1981) 





NOTTE DEI MORTI
di Olindo Giacobbe (1889-1954)

Contro la casa che sta sorda e immota,
nella notte dei morti ulula il vento:
stanno in attesa d'una voce nota
tre ombre intorno al focolare spento.

Nessuno arriva. Prese di sgomento
girano intorno la pupilla vuota
e sospirano. A ognuno il pianto, lento,
riga cocente l'una e l'altra gota.

Non vi sia greve l'aspettar! Siamo stanchi
e gli anni come sabbia tra le dita
ci sfuggono e i capelli son già bianchi.

Verremo. Se, travolti dalla sorte,
da voi lontano ci scagliò la vita,
in grembo a voi ci spingerà la morte.

(Da "Emmaus", 1949)





NEL DÌ DEI MORTI
di Emilio Girardini (1858-1946)

Donde la gioia che in tutte le vene
mi scorre in questa sì triste giornata
di tutti i morti, di nebbie velata,
                        donde proviene?

Non già dai campi, da gli orti spogliati
che più non dànno se non crisantemi,
né dai vigneti con pochi racemi
                        dimenticati.

Eppure in mezzo a sì squallide cose
ove lo scricciolo méndica solo,
nel cuor mi sbocciano, senza più duolo,
                        mistiche rose.

Il vostro mare sonoro, o campane,
che su le rive si frange ignorate
dei morti, il senso mi dà di beate
                        sagre lontane,

e fra le nebbie lo squillo remoto
del gallo, a cui porgo orecchio, mi pare
voce che inviti di là da quel mare
                        verso l'ignoto.

(Da "Poesie", 1952)





IL GIORNO DEI MORTI
di Corrado Govoni (1884-1965)

Questo giorno, ogni vecchio camposanto
schiude i cancelli per la processione
de le ghirlande comemorative;

questo giorno, ogni lapide nel canto
più solo s'orna d'una comunione
d'aster e di calendule tardive.

Si raddrizzan le croci reclinate
che già s'incominciavano a guastare,
si rinnovan l'iscrizioni tombali

e le fotografie dissanguate;
e gli avelli diventano un altare
di lampade e di fiori artificiali.

Nel sagrato de l'antica Certosa
i coni funebri dei tassi tetri
àn l'aspetto di neri catafalchi;

una chiesa ferisce la dogliosa
costa del Tempo. Nei fanali i vetri
sono appannati, simili a dei talchi.

Un'acquerugiola che pare ranno
al lutto de le cose dà un convegno.
E tra i veli di nera tarlatana,

nei portici le cere si disfanno
dai candelabri di tarlato legno
su le rose di gialla porcellana.

(Da "Armonia in grigio et in silenzio", 1903)





LAS ANIMAS
di Mario Luzi (1914-2005)

Fuoco dovunque, fuoco mite di sterpi, fuoco
sui muri dove fiotta un’ombra fievole
che non ha forza di stamparsi, fuoco
più oltre che a gugliate sale e scende
il colle per la sua tesa di cenere,
fuoco a fiocchi dai rami, dalle pergole.

Qui né prima né poi nel tempo giusto
ora che tutt’intorno la vallata
festosa e triste perde vita, perde
fuoco, mi volgo, enumero i miei morti
e la teoria pare più lunga, freme
di foglia in foglia fino al primo ceppo.

Da’ loro pace, pace eterna, portali
in salvo, via da questo mulinare
di cenere e di fiamme che s’accalca
strozzato nelle gole, si disperde
nelle viottole, vola incerto, spare;
fa’ che la morte sia morte, non altro
da morte, senza lotta, senza vita.
Da’ loro pace, pace eterna, placali.

Laggiù dov’è più fitta la falcidia
arano, spingono tini alle fonti,
parlottano nei quieti mutamenti
da ora a ora. Il cucciolo s’allunga
nell’orto presso l’angolo, s’appisola.

Un fuoco così mite basta appena,
se basta, a rischiarare finché duri
questa vita di sottobosco. Un altro,
solo un altro potrebbe fare il resto
e il più: consumare quelle spoglie,
mutarle in luce chiara, incorruttibile.

Requie dai morti per i vivi, requie
di vivi e morti in una fiamma. Attizzala:
la notte è qui, la notte si propaga,
tende tra i monti il suo vibrìo di ragna,
presto l’occhio non serve più, rimane
la conoscenza per ardore o il buio.

(Da "Tutte le poesie", 1988)





RINTOCCA MESTA LA CAMPANA AI MORTI
di Clemente Rebora (1885-1957)

Rintocca mesta la campana ai morti
nel ciel brumoso tutto prono a terra,
la nostra morte muore, e si disserra
al Ciel la vita in Cristo pei risorti.

(Da "Le poesie", 1994)





2 NOVEMBRE
di Cesare Vivaldi (1925-1999)

Le nostre idee di libertà e giustizia
sono solo fantasmi od illusioni,
Franco? Mi colma il cuore la mestizia
delle stagioni

che senza posa scorrono: e domani
conterò trentun anni. In mezzo ai morti
stendo le braccia, come un fico i rami
spogli sugli orti.

Così solo, così grigio, così
contorto! E tutto avanti a me si fonde
in una nebbia: passato, avvenire,
presente. Fonde

malinconie m'assalgono, e non basta
a disperderle il riso delle donne,
non basta il vino, le ciarle, la lastra
rovente d'onde

nel bianco ristorante il cuoco toglie
la carne abbrustolita e me la porta
perché m'ingozzi. Saranno le foglie
secche, la morta,

gialla stagione che con esse trema
freddolosa sul cuore, il grido acuto
d'una tardiva rondine, l'estrema,
il suo saluto

lamentoso, che ancora «Iti» chiamando
dall'eco, «Iti» raccoglie. Mitologico
ricordo, da sorriderne pensando
me in antologico

cacciatore di fiabe trasformato.
E vedi, Franco, come per te scrivere,
a te pensando, m'ha rasserenato,
e forse a vivere

di nuovo in pace penso, di me stesso
sorridendo, con la facilità
dell'ironia, che è surrogato spesso
di libertà.

(Da "Poesie 1952/1992", 1993)





IL 2 DI NOVEMBRE
di Paolo Volponi (1924-1994)

Nella mia capitale di campagna
oggi ancora più fitta sale
la nebbia dalla porta di Lavagine,
la porta che guarda verso il mare.

Restano fuori i contadini a seminare
e qualche frate verso gli Zoccolanti.
Dopo la semina si chiude l'anno;
il resto è uguale,
oppure una gran voglia di pane.

(Da "Poesie 1946-1994", 2001)