domenica 12 ottobre 2014

L'autunno in 20 poesie di 20 poeti italiani del XIX secolo

PENSIERI D'AUTUNNO
di Giuseppe Arnaboldi (1827-1896)

Amo le nebbie ond' è coperto il piano,
Qui nerissime e grevi e là sfumato,
Le lunghe nebbie che lontan lontano
Hanno aspetto di mura o di cascate;
Amo il lume che in voi splende sì arcano
dell'autunno pallide giornate,
Ed incoloro e senza moto il lago,
Specchio appannato dove muor l'imago.

Traverso all' acqueruggiola che scende
Lentissima, di filo e fine fine,
E che col fitto suo vel ne contende
Qual'è sfondo di monti e di colline.
Amo veder quai forme di tregende
Giganteggiar le balze più vicine;
Amo le foghe gialle e turbinanti
Ed i vigneti ove ammutirò i canti.

A tal scena sei triste, anima mia,
E nondimanco non domandi il sole.
Ah, nell'inconscia tua malinconia
Più pensieri non hai né più parole!
Eppur misera è l'anima se oblia
Come da lei l'assidua opra si vuole
Onde in sé chiusa ver' l'Idea s'innalzi,
aperta il mercator secol v'incalzi!

Malinconia figliuola è a gentilezza,
Che non conosce lei cuore villano;
Ma se ognora sé stessa ella accarezza,
Se l'un verso la circonda invano,
Dell'indico papavero è l'ebbrezza,
È la Villi del canto lituano
Che in fondo all'acque, ove sepolto giace,
Tragge chi troppo accanto a lei si piace.

Oh migriam cogli augelli! In liete schiere
Ei mi passano innanzi alle vetrate
Sorvolando con lor piume leggere
Le sodaglie ed i colti e le boscate.
E un gruppettin dall'alto aere mi fere
Di note sottilissime e serrate,
E par che ad esse di lontan risponda
D'un ragazzetto la canzon gioconda.

La fredda Alpe lasciando e l'Apennino,
Ei cercano oltre il mar cielo novello,
Le plaghe d'onde a noi spunta il mattino,
I regni della prole d'Ismaello;
E allegreran, danzando, il pellegrino
Quando sceso dal docile cammello
Adora Macometto e la sua legge
Che gli esulati volator protegge.

E un sorriso sul labbro or mi balena,
E, dentro a nube dal color di rosa,
Di Damiata m'adagia in sull'arena
La fantasia ch'è donna e capricciosa.
Già sento dalla libica catena
Della mirra spirar l'aura odorosa,
Già m'affido del Nilo ai mille giri
Fra i boschetti di palme ed i papiri!

Ma ogni sogno gli è sogno, e, se la vita
Attorno a me già quasi tutta è spenta,
Il tenace voler nella romita
Anima mia di ridestarla tenta.
Un vegliardo, un poeta, a sé m'invita
Che, fulmineo lo ingegno e l'orma lenta,
Dal mio lago ove al dì gli occhi ei schiudea,
Povero prete, alla città scendea.

Sul colle ancora il suo tugurio siede,
Ed un senso ineffabile ne spira;
Se appena poso sulla soglia il piede,
Tosto m'esulta il cor, tosto sospira.
«Oh Parini,» esso grida, «oh qual ti diede
«Genio l'arguta e formidabil lira?
«Qual sacra fiamma ti lambì le chiome,
«Nato di plebe che non sa il tuo nome?»

Sulle grandi librarsi ali dorate
Veggo del veglio allor l'ode civile.
Del veglio che le nuove e non fucate
Idee scolpì col verecondo stile,
E quante poscia l'alme rassegnate
Piansero nenie avrebbe avute a vile,
E affilò l'ironia per cui non muore
Colle sue ciprie il giovine Signore.

Ma il sole è ricomparso, e su pei monti
S'arrampica la vinta nuvolaglia
Che percossa dai crocei tramonti
Di molteplici tinte n'abbarbaglia;
Onde ne par che dalle auguste fronti
La fiamma e il fumo d'un incendio saglia,
Mentre il cielo su noi stendesi azzurro
D'una fresca del norte aura al sussurro.

Lago gentil, poetica parola,
D'oro e d'argento l'Eupili risplende
E un color di simpatica viola
Sul verde delle selve si distende; 
Poscia l'ultimo raggio al pian s'invola
E lenta l'ombra le montagne ascende
E in suon di voce lamentosa e pia
Intuonano le squille: «Ave Maria!»

«Ave Maria!» Già tace ogni lavoro,
Si chiudon limitari e davanzali,
E dall'opre del dì cercan ristoro
Gli uomini affaticati e gli animali.
Scendon gli angeli a schiere, e sogni d'oro
Depongono dei bimbi in sui guanciali;
Indi suona il rosario entro le stalle,
Prece d'afflitti in lagrimosa valle.

Strano fumo frattanto esce dai tetti
Dov'ardon torbe a preparar le cene,
E alternata a fantastici diletti
Una tristezza dentro al cor me 'n viene,
Poich'esso evoca in me squallidi aspetti
Di borusse pianure e di rutene
Ove in luogo di gelsi e di vigneti
Provan eriche solo e negri abeti.

Fra quei vari pensieri inavvertito
Il fedele mio sigaro si è spento,
Ed invan colle labbra, invan col dito,
Di richiamarlo vivo io m'argomento.
Ma poi che il picciol astro è disparito
Io sollevo gli sguardi al firmamento;
E mi veggo sul capo arder Boote
E stelle e stelle oltre ogni dir remote.

Oh di Laplace ipotesi stupenda
Che plasmasti d'ardente etere il cielo!
Quando sarà che tutto alla tremenda
Dilacerar si possa Iside il velo?
Ah ovunque, ovunque il mio pensier si stenda,
Arcano al core si raccoglie un gelo...
Ma la via per cui movo è sterpi e sassi,
E gli è buio che tinge... Occhio a' ma' passi!

(Da "Versi", 1872)





AUTUNNO E AMORE
di Bruna (Laura Clementina Maiocchi)

Giunto è novembre; dal cielo plumbeo
cade la pioggia, lenta, monotona;
la brezza il fior distrugge,
la rondinella fugge.

A noi che importa? se i fiori sbocciano
nel maggio eterno delle nostre anime?
se il vivo sol d'amore
le inonda di splendore?

(Da "Petali e lagrime", 1894)





AUTUNNALE
di Giovanni Camerana (1845-1905)

Io son l’albero strano, che protende
Sotto le fredde nubi accavallate
I biechi rami; e fra le interminate
Solitudini, e per le steppe orrende

L’albero maledetto io son, che attende
Giù dalle torve nubi accavallate
La folgore fatale, onde troncate
Vi sperda Iddio, presàghe ansie tremende,

Infinite stanchezze, ore più affrante
Ore più tristi che un calar di feretro
Dentro la sepolcral fossa beante;

A me il vento di morte!... A me i tramonti
Del funereo novembre; io son lo scheletro
Spaventator dei lùgubri orizzonti.

(Da "Poesie", 1968)





NOTTE D'AUTUNNO
di Tommaso Cannizzaro (1838-1912)

Tacito, inerte e dentro ascose al seno
Le palme irrigidite
Da la brezza marina,
Allor ch'alta è la notte ai bruni ferri
Di quel veron sovente il fianco io poggio.
E la notturna brina
Silentemente cade, e la natura
Ne l'ombra oscura un ferreo sonno dorme.
Sol la profonda ascolti
Cupa voce de l'onda
Risonar per l'azzurro aer sereno,
Ne per le sparte case o a' verdi colti
Rumor di passi alcuno,
O soffio alcun di vento
Per entro ai folti arbori.
Io le pupille , ignude
Sì tosto, ohimè, dei più gentili amori,
Al mio "zenitte" appunto, e tu dal cielo
Sette raggi di luce a me tu piovi
O grand'Orsa cui sempre, or mi ricorda,
Ne la mia lunga via
Di sospiri e d'affanni,
Per le notti serene
Ancor fanciullo a contemplar venìa.
Tu vivi ognor! Ma che più a me rimane
Altro che il pianto e il lamentar de gli anni?

Quai sovrumani , orrendi
Martìri a me dischiude
Ciascun'ora che avanza!.. e nulla intanto
Esprimer sa, ne puote
L'onda affannosa del dolor che m'ange!
Niun labbro, niun accento
Aita i dolorosi:
E per mesto concento
Occhio mortai non piange;
Ahi! forse irride il vulgo, irride ancora
A queste voci, e già non sa ne crede
L'alto gemer de l'alma. — Altri, seggendo
A riguardar la vaga
Stella polare, o il sommo
Pianeta eccelso a cui per quattro lune
Piove a notte la luce, e lunge il fioco
Scintillar di Saturno,
A se va discoprendo
Nuovi e più lieti mondi ond'ei felice
Nulla curando il vero
Che a lui non morde il seno
Vive di dolci sogni in suo pensiero.

Ma se dal sommo là dei bruzii monti
Lenta emerge la luna
E i bianchi rai rifrange infra le nubi,
Se tondeggiante e bella
Andar la veggo e tremolar nel cielo,
Quanti pensieri aduna
La mente mia! talora in simil guisa
A lei mi volgo: o tu, cui tanto abbella
Nostro pensier, di questa atra dimora
Forse men vii non sei: —
E qui sommessamente il cor dolora
In pensar che da lunge il tutto scende
Gradito e ne innamora!
Così parrà gentile
Ai figli tuoi questa meschina sede
Se lei riguarderanno
Qual noi già te, d'ogni altro ignari e in forse,
Quando pel ciel si tragge e il sol la fiede.
E torno poscia sconsolato a quello
Vagar sublime e puro
De l'alma in sé ristretta; a quella dolce
Idealtà natia
Da cui disvelto, io giaccio
Come in orrendo esislio
Quasi presso a morir di nostalgìa!
Ogni amor mi fu tolto! ahi, non un viso
Sorride al mio sorriso;
E perché dunque io più non son quell'io?
Ciascun legame è infranto:
Fino i più cari a me dièrmi un addio!

Ma se tu vivi, o cara,
Se qui ancor tu rimani al petto mio,
Oh, non d'affetti avara
Fia la terra ch'io premo! a un sol tuo sguardo
Mi si dilegua alle pupille il mondo!
Oh novo amor sublime
Ch'ogni altro amor più santo in me travanzi!
Teco io vissi e morrò: per te di rime
L'aer qui trema! Oltre lontan que' mari,
Che si stendean dianzi
Qual molle ed ampio velo in lieve azzurro
Tra l'una e l'altra terra;
Oltre là quelle cime
Brune di monti, cui l'oscura notte
Quasi una negra fascia or mi dipinge,
Che dietro a sé già serra
Ai mio veder quei lucidi orizzonti,
Tu posi, fior d'ogni gentile idea!
In me, sì come bella
Appar l'attesa luce a quei del polo,
Con quai dolci desiri, ahi lasso, un giorno
La tua beltà sorgea!
Da me tu lunge or vivi: ed io quest'alma
Sento spezzarsi! oh, se compìti or fièno
Morendo i voti miei,
Diletta mia, deh voglia al tuo ritorno
Accor con ferrea calma
L'opra del fato; e i gemebondi lumi
Ah, non posar su l'infelice salma!

(Da "Ore segrete", 1862)





AUTUNNO
di Luigi Capuana (1839-1915)

Come fiocchi di neve
van cadendo le foglie
e gli alberi fra breve
saranno senza spoglie.

Soffia il vento, s'oscura
di tetre nubi il cielo,
e tutta la natura
par si copra d'un velo.

Ah, la bella stagione
con le foglie è finita!
Al sonno si compone
la terra intorpidita.

Ma, mentre così dorme,
tutte operosamente
rinnova le sue forme
la vita onnipossente.

Dormi, terra; dormite
alberi, erbe, fiori:
a primavera uscite
giovani e freschi fuori.

Oh, v'attendiam! Saremo
rinnovati noi pure.
No, non c'è un giorno estremo,
sorelle creature!

Creature sorelle
si migra ad altre rive;
in più serene, belle
forme, tutto rivive.

(Dalla rivista "Illustrazione Popolare", ott. 1899)





SALUTO D'AUTUNNO
di Giosuè Carducci (1835-1907)

Pe' verdi colli, da' cieli splendidi, 
e ne' fiorenti campi de l'anima, 
Delia, a voi tutto è una festa 
di primavera: lungi le tombe! 

Voi dolce madre chiaman due parvole, 
voi dolce suora le rose chiamano, 
e il sol vi corona di lume, 
divino amico, la bruna chioma.

Lungi le tombe! Lontana favola 
per voi la morte! Salite il tramite 
de gli anni, e con citara d'oro
Ebe serena v'accenna a l'alto.

Giú ne la valle, freddi dal turbine, 
noi vi miriamo ridente ascendere; 
e un raggio del vostro sorriso 
frange le nebbie pigre a l'autunno.

(Da "Odi barbare", 1893)





MARIA
di Pietro Cossa (1830-1881)

L'autunno si dispoglia
Omai d'ogni sua foglia,
E riedono le piogge e il verno tristo.
Soletto ne la stanza,
A me sovvien de la stagione andata
Come d'una speranza,
E richiamo i suoi fiori, e la tepente
Aura, e il dolce sereno
Onde suole beata
Ai campestri piaceri uscir la gente.

Or dove ti nascondi,
Gracile giovinetta,
Che più non ti rincontro in su la via?
Una donna diletta
Chiamandoti Maria
T'accompagnava con materna cura,
E tu pesando sul fidato braccio
Venivi, uguale a stanca creatura
Che non spera vicino
Il termin del cammino,
Ma del penoso andar non si lamenta.
Talvolta, affatto spenta
Ogni forza provando, t'assidevi
Dove una quercia antica
Sparge freschezza amica
Da un lato del sentier che mena al borgo,
E colà sorridevi
Mesta, vedendo trapassar le belle
Che t'erano sorelle
In giovinezza, e ch'ivano cantando
A mover danze in mezzo a la campagna.

Io sentiva tristezza
In riguardarti, o tenerello fiore
Dell'autunno che muore,
E pien la mente e il petto
D'un angoscioso affetto,
Seguia quel tenuissimo profumo
Che lasciavi fuggendo da la terra.
Nel loco ch'è il più erto
Del bel villaggio, stava
La tua casa modesta,
E intorno v'aleggiava
Il venticel che vien da la marina;
Ivi io solea gran parte
De la notte vicina
Spender vegliando sotto la tua cella.
Pensoso del destin che si riserba
Si spesso a la donzella
Nell'età sua più acerba.
L'ultima volta che ti vidi, il giorno
Splendeva de la festa,
E le fanciulle attorno
Uscìan contente de la veste nova,
E adorne il crin di rose e di viole,
Segno a loquaci sguardi
E a timide parole;
I tuoi passi eran tardi
Più dell'usato, e fra la gente amena
Passava quella tua melanconia
Come picciola nube ov'è del cielo
La parte più serena.
O povera Maria,
Conscia quaggiù mai fosti
De la fiamma che ardevami nel core
Sì sconsolata, e uguale
A quel tuo chiuso male;
E che felice avrei
Dato a fine immatura i giorni miei
Per conservare il tuo gentil sorriso
Più a lungo in queste valli?

Poiché sparia la vaga
Stagione, e le famiglie
Abbandonar questo soggiorno verde,
Ogni di più si perde
De' campi l'allegria,
Il tedio incombe e sue nebbie compagne,
E del cor mio più sanguina la piaga.
Ieri per quella via
Che fra i cipressi mena al campo santo
Men giva solitario,
E uscir de la funerea chiesuola
Vidi una donna che guardava il cielo
Con l'occhio grosso dal continuo pianto.
Qual altro avea disio
Se non deporre de la carne il velo,
E riabbracciare in Dio
La sua morta figliola?

(Da "Poesie liriche", 1876)





ROMANZA
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

Prono, su 'l mar natale
cui nasconde la duna,
ride il sole autunnale,
dolce come la luna.

S'ode il mare pe 'l lido
gemere, lento e grave.
S'ode talora il grido
fievole d'una nave

che faticosa in vano
lotta co 'l vento avverso,
il richiamo lontano
d'un uccello disperso,

o l'improvviso tuono
d'un'onda più gagliarda.
Ride il sole, già prono,
e dolcemente guarda.

(Da "Isaotta Guttadauro ed altre poesie", 1886)





ROGHI D'AUTUNNO
di Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943)

Ricordi tu? Ti punge anche il disio
de' vespri gialli a' piani interminati,
o ben degli infantili anni passati
tiene l'anima vinta il pigro oblìo?

Oh! prati gialli nell'autunno! Oh foschi
vespri, di nebbia tenue nutriti:
oh strepente di uccelli impauriti
accidiosa ruggine dei boschi!

Io mi ricordo. Già mi piacque allora
la vostra intimità quasi dolente:
e a me bambino dolorosamente
voi già parlaste: e quella onde mi accora

la lontananza ch'io non so spezzare
meco bevve la vostra erma malia...
Or dove sei, prima compagna mia,
che non ti senti dal mio cuor chiamare?

Erravam per i campi. Eran silenti
i campi, e tristi: qualche foglia rada
s'udia pianger dai rami ai freddi venti:
tenean brevi pozzanghere la strada.

Noi soli... Oh! come il freddo vento a lei
scompigliava i capelli; e al dilicato
volto di bimba il timido incarnato
come fioriva sotto i baci miei!

Poi, per cacciare il freddo, ampia di stecchi
messe raccolta, e di foglie: scavata
una piccola fossa, ai rami secchi
davamo il fuoco: e su, lenta, serrata,

tra 'l fumo acre e 'l sonante crepitìo
salìa la fiamma vigile, sì come
balza da un cuore, al fiammeggiar d'un nome,
l'acre vampa del sogno e del disio.

Oh! pei campi deserti il breve foco!
sopra, qualche castagna abbrustoliva:
indi la fiamma si facea men viva,
e moriva e moriva, a poco a poco...

Restavano i carboni: e noi seduti
al morto rogo scaldavam le mani:
le tristezze perenni, i sogni vani
che dopo per tanti anni ho conosciuti,

oh! non allora mi crescean nel cuore,
oh! non allora il mio cuor sanguinava...
Ella parlava tenue, parlava;
io bevea dalla sua voce l'amore..

Tutto questo finì, tutto è caduto
nel vuoto abisso delle morte cose:
oh! con le nivee man piene di rose,
tenera visione io ti saluto!

Bionda bambina, che di poi dolente
seppi e pensosa del lontano amico,
io qua dirti vorrei, come non dico,
quanto soffersi e quanto t'ebbi in mente:

e ch'ogni anno, al tornar dei freddi giorni,
se pei campi io mi aggiri o a' gialli prati,
qua dove insieme non siam più tornati
dov'io solo ritorno, e tu non torni,

io ti penso e ti piango, e ti desìo;
e mi par di vedere anche, alla riva
d'un rosso bosco, una gran vampa viva
salir tra 'l fumo e 'l denso crepitìo:

i nostri roghi dell'autunno ai piani;
i roghi tristi, dove, a poco a poco,
simili a sterpi che divora il fuoco,
anche questi arderò sogni lontani.

(Da "Il convegno dei cipressi", 1894)





SONETTO D’AUTUNNO
di Arturo Graf (1848-1913)

O stanco autunno, o pia mestizia e cara
Allo stanco mio cor, dacché la folle
Lusinga tacque, e con lo sdegno a gara
L’inquïeto desio più non vi bolle;

O stanco autunno, dalle smunte zolle
Cui l’uom prostrato maledice ed ara,
Dal muto bosco, dal deserto colle,
Tu spiri al cielo una dolcezza amara.

E mentre il vento se ne trae le fronde
Inaridite, e pei cadenti clivi
Muojon, pregando il sol, gli ultimi fiori;

Tu, scolorate larve, e tremebonde
Ricordanze nell’anima ravvivi,
E dolci sogni di perduti amori.

(Da "Le Danaidi", 1897)





GLI ULTIMI GIORNI D'AUTUNNO
di Giuseppe Maccari (1840-1867)

Fosche nubi s' aggirano pel cielo
Nella pugna de' venti, e langue il sole.
Or qua or là s'imbruna la campagna.
Com'è solenne tal melanconia!
La vita alta e robusta delle piante,
E quella sottilissima dell'erbe
Languono insieme. Leva la farfalla
Melanconica il volo, che non trova
Un fior che la diletti nella valle.

Aquilone s'è desto; io ho veduto
Gli alberi turbinare sopra il colle.
Ricoprirsi di foglie inaridite
Il pratello ove rise primavera.
La fantasia vien meno, e più s'avviva
Del cor la vita e signoreggia, e move
Per la mente l'acerbe rimembranze.
Tutto soffre quaggiù; non è perito
L'amor del giglio e della rosa? ed era
Quell'amore innocente, e lo produsse
La forte giovanezza di natura.

Rosseggiavano i lampi, e il lume acceso
Ho nella cameretta; il primo sonno
M'ha interrotto la subita tempesta.
Io starò vigilante, che non posa
Il mesto core, e ad or ad or s'attende,
Perché crescon vicini li cipressi,
L'altissimo fragor della saetta.
La tortorella ha pur fatto lamento.
È timidezza propria di chi nulla
In sé confida, e figlia d'innocenza;
Ché la fiducia allora in Dio si pone.

Il cielo tenebroso piove il freddo;
Ma d' ogni parte all'occidente scoppia
Il fulgor del tramonto, e ancor da lunge
Le sovrapposte nuvolette pinge.
Riverenti alla luce che discende
Stanno le nubi; poi faran tempesta
Cozzando insiem regine della notte.
Cara fanciulla Emilia, ora m'attende
La famiglia che m'ama; un'altra sera
Mi sonerai le dolci melodie.

Quando tu siedi al cembalo fanciulla,
E i capei biondi toccano le spalle
E l'occhio azzurro ride come il cielo,
Io che ti sto d'incontro allora il vago
Paradiso degli angioli mi godo.
Io rinascer vorrei, fanciulla mia,
Vorrei com'ora languida tessuta,
Purché tutta con te pargoleggiasse,
Tutta con te fiorisse la mia vita;
Purché mi amassi, giovinetta, quando
In treccie avvolgerai la lunga chioma,
E sarà l'andar grave, e colmo il seno.

Tutta la vita di natura è un misto
Di gioia e di dolore; or, ecco, il cielo
Ch'era sì torbo, limpido risplende.
Cavalcano le nobili fanciulle;
E ve' tornata, com'april nascesse,
La scherzosa farfalla sui giardini.
Odi, Emilia, vo' dirti un bel secreto
Ch'all'orecchio m'ha amore susurrato;
Amano i fiori (ed esser si potrebbe
Senz'amor?), ma d'alcuni son desio
Mesto le fanciullette, e l'esser colti
Da queste è gioia dell'ingenuo amore.

(Da "Poesie", 1865)





AUTUNNALI
di Nicola Marchese (1858-1910)

Morta è la bella dai capelli d'oro
un'altra volta, la bella e la buona,
che, a fornir pane, ogni anno il suo tesoro
al taglio di più e più falci abbandona.

Pallido, veste l'autunno le spoglie
che nere gli han tessuto i nuvoloni;
e piange e piange lacrime di foglie,
torvo imprecando col rombo de' tuoni.

Ma il vento sperde delle foglie il pianto;
sbiadisce, al sol, delle gramaglie il nero;
i novi azzurri già ridono al canto
che d'immemori ebbrezze è messaggero.

E la vendemmia vien fervida e pia,
porgendo un nappo con prodighe mani,
al qual bevendo, ignorasi ed oblia
d'ieri e d'oggi ogni cura e di domani.

Bevi, autunno, e t'addormi, e di lei sogna
i capei d'oro, non falciata messe.
Creder del vin gli giovi alla menzogna:
un sudario l'inverno a lui già tesse.

(Da "Crisantemi", 1895)





OMBRA D'AUTUNNO
di Giovanni Marradi (1852-1922)

Or che si velano d'ombra cinerea
le notti roride, Falbe odorose,
che sotto il languido tedio dell' aere
               dormon le cose,

io della pallida mia solitudine
torno al silenzio, torno all' oblio....
Ahi com'è gelida l'ultima lacrima,
               l'ultimo addio!

(Da "Poesie", 1907)





FINE D'AUTUNNO
di Guido Menasci (1867-1925)

Ora il giardino è solitario. Posa
su 'l giardino la trista aria autunnale
grigia. Su 'l cespo arido una rosa
illanguidisce. È l'ultima. Il viale,

che già rideva a l'alba luminosa
d'april di voli e canti, un sepolcrale
silenzio vince. Pare in ogni cosa
un brivido ed un brivido qui assale

l'anima. Sembra che gli alberi spolti
sien scheletri ingialliti e dissepolti.
Poi come su le isterilite aiòle,

dispare il raggio ultimo del sole,
par che la voce non osi parole
e che il silenzio pauroso ascolti.

(Da "Il libro dei ricordi", 1895)





AUTUNNO
di Alfredo Oriani (1852-1909)

Vola, fuggiasca rondine,
che verrò teco a voi.
Tutto è qui morto — o rondine,
dove dirizzi il vol?

Lontan lontan ceruleo
sorride il ciel; sorride
più in alto il sole — o rondine,
quale più ti sorride?

Vola, fuggiasca rondine,
fuggiasco volerò:
tutto è qui morto — perdermi
lontan, lontan io vò.

(Da "Monotonie", 1888)





SERA D'AUTUNNO
di Enrico Panzacchi (1840-1904)

Dove vanno le nubi? — In alto, fumide
Verso il ciel di Levante
Le spinge un turbo: viaggiando pigliano
Simulacri di mostro o di gigante

Mobili, strani: sui lor fianchi plumbei
In lunghe oblique file
Passan le gru, lontane, velocissime
Migranti a plaghe in cui s'innova Aprile.

Dove vanno le foglie? — Intorno ruotano
Della brezza sull'ali
Taciturne, o stridendo s'accartocciano
Delle chiuse finestre ai davanzali,

O tra' cespugli del giardin s'impigliano,
Sui fior già smorti infesta
Ghirlanda; cenci scolorati e laceri
Del superbo mantel della foresta.

Contro l'ultima luce del crepuscolo
I foschi baluardi
Erge intanto Bologna: fra i nudi alberi
Qualche acceso fanal brilla a' miei sguardi,

Dai viali del suburbio: un rumor languido
Vien di sopra le mura,
Mentre silenzio ed alta solitudine
Guadagnan d'ogni parte la pianura;

E sbucato pur or di sotto agli embrici
Mi gira un vipistrello
Dintorno al capo — muto, uggioso, assiduo
Come un pensier che ho chiuso entro il cervello...

(Da "Lyrica", 1877)





L'ULTIMO AUTUNNO
di Pietro Paolo Parzanese (1809-1852)

Fuggîr le rondinelle
lungi da questo ciel,
né come pria le stelle
splendono senza vel.

O autunno, e tu ritorni
un'altra volta ancor
co' pallidi tuoi giorni,
co' grigi tuoi vapor!

Eppur io non sperai
vederti ritornar,
ché a mezzo april pensai
la vita abbandonar.

Ma vidi sulla spina
la rosa rifiorir,
or veggo alla collina
i pampini ingiallir.

Deh! col morir dell'anno
potessi anch'io morir,
e senza nuovo affanno
la vita mia finir!

Meco morir vedrei
le foglie i cespi i fior,
le ciglia io chiuderei
ne' rai d'un sol che muor.

Ah! mi son cari tanto
i fiori il cielo il mar!
Nel lor più vivo incanto
non li saprei lasciar.

Chi visse ognor beato
non ama i cespi e i fior,
come chi abbandoanto
si pasce di dolor.

Le belle creature
già il vento scolorò;
già cascano, ed io pure
con esse morirò.

Oh addio! Se qualche fiore
pur dopo me vivrà,
la madre a me sul core
quel mesto fior porrà.

(Da "Canti del Viggianese", 1946)





TRAMONTO
di Mario Rapisardi (1844-1912)

Porporeggian le viti a la campagna
Nel bigio autunno in sul mancar del sole;
Il pettirosso invita la compagna
A saltellar su le zappate ajuole;

Nel vóto stabbio querula si lagna
La vaccherella a cui tolta è la prole;
Per l'erma strada il poverel si duole
Col cencioso fanciul che l'accompagna.

L'aure senton di muschi e di vinaccia;
E lontan, l'uste de la fiera scòrte,
Latran le mute signorili in caccia;

Mentre a' figli pensando e a la consorte
Il nero carbonajo alza la faccia,
E con bieco pensier fischia a la morte.

(Da "Giustizia", 1883)





MUORE L'AUTUNNO...
di Corrado Ricci (1858-1934)

Muore l'autunno — al vento del giallo mantello si spoglia
il denso bosco; vanno — correndo il bianco

cielo con l' ali stanche — le rondini a più miti plaghe. 
Mesta seduta presso l' alto balcone,

pensando al triste amore, le nuvole guarda sospinte
dal vento ai bianchi colli, fumide, oscure

e le striscie di pioggia che cadono oblique sul lago.
Declina il volto la povera fanciulla

e lagrima — «Fra poco nel freddo sepolcro rinchiusa
giacerò. Il core mi si chiude pensando

ch'io debbo, ahimé morire, morire su 'l fiore de gli anni!»
Mentre l'attrista crudelmente il pensiero

di morte, il sole rompe da ponente le negre nubi,
l'erma campagna di rosea luce innonda,

il lago scintillante, le cime nevose de i monti;
un caldo raggio corre sul bianco volto

de la tisica — Scossa a la nova luce sorride...
ahi sorridendo socchiude gli occhi e muore!

(Da "I miei canti", 1880)





TEDIO AUTUNNALE
di Alberto Rondani (1846-1911)

L'albe son fosche, e lividi i tramonti;
Cascan gocce dai rami e foglie gialle;
Nuvole dense e irresolute i monti,
E tutto fango è il fondo della valle.

Or dove sono i ceruli orizzonti?
Che ne sarà di quel romito calle,
Lungo quel rio, quel rio pieno di fonti,
Di serpilli, di muschi e di farfalle?

In queste scarse ore di luce, a quante
Ricordanze che me chiamano a nome
S'apre il mio cuore come una ferita!

Ed io vi seguirò, trepide e sante
Voci. Ma che, di già s'invecchia? oh, come
Son lunghi i giorni, e rapida la vita!

(Da "Voci dell'anima", 1883)

domenica 5 ottobre 2014

L'Europa in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

LE PANNOCCHIE
di Siro Angeli (1913-1991)

Andando in compagnia di settembre
nel vento dei sobborghi, ad Atene,
mi sorprese a una svolta, scordato
dagli anni, un odore (non sempre
dispiacciono gli agguati). Rividi
i campi di granoturco con vene
di verde nel verde, e al palato
mi rifluiva il succo lattescente,
mentre il contadino al crocevia
tra Grecia e Carnia gettava gridi
freschi per rivendere alla gente
(«Pannocchie a una dracma») la mia
infanzia dentro quel giallo ambrato.

(Da "Il grillo della Suburra", 1975)





DA DOVER A CALAIS
di Piero Bigongiari (1914-1997)

Circoli, non più che circoli, si allargano all'orizzonte
con una tale perfezione.
Il pianto fisionomico dell'uomo
piange sull'orizzonte, lo sorveglia:
strano sorriso che piange, chi sa perché,
sulla differenza che si colma,
sulla frontiera che non esiste: è un centro
che si allontana concentrico per deconcentrarsi
e sorridere piangendo.
                                Se una riva s'allontana
un'altra riva s'avvicina. Un fiore
cade nel vuoto del vulcano in luogo di Empedocle,
ritrova il rosso scuro della fiamma magmatica anche se cade nella Manica
donato a te piccola Europa del grande cosmo che avviene poroso.

(Da "Moses", 1979)





IN BATTELLO SUI LAGHI DELL'HAVEL
di Paolo Buzzi (1874-1956)

Mappe di verde,
in voi l'anima si tuffa e nuota
come la lingua sitibonda nella coppa di menta,
come la murena ebbra negli acquari della sua felicità.
Grosses Fenster, Frei Bad, cupe di fondiglio smeraldino,
riversatemi una boccia d'assenzio nel cuore!
O Wansee, voglio gustare il tuo filtro,
o Havel, fammi fradicio morto del tuo alcool cilestro!
Si salpa, fra i cigni. Il battello bianchissimo
è, un poco, il più grande fra loro.
Guardo le ombre profonde dei flutti,
l'immane foresta subacquea
che copia l'emerso paese di foglie.
Tutto è brivido liquido che trasporta.
L'anima s'increspa d'onde piccole come una laguna.
Adoro le isole minime a rabeschi verdi
quasi palme su baveri d'accademici di Francia:
e penso ad esilii, a nidi, a talami d'amache in meandri.
Rotano i mulini a vento sul filo dell'aria
orologerie enormi
del tempo e dello spazio che passa.

(Da "Versi liberi", 1913)





TOLEDO
di Raffaele Carrieri (1905-1984)

La testa piena d'icone e spine
Vado con le spade
Fuori Porta della Visagra.
Vado a Santa Maria la Blanca
Vado sul ponte d'Alcàntara.
Vado al fiume coi cani ciechi
Vado con tutte le pietre
E il Conte muore,
Il conte muore in tutte le ore.

(Da "Canzoniere amoroso", 1958)





LIFFEY RIVER
di Bartolo Cattafi (1922-1979)

La Birra Guinness ha molte porte scure 
sui docks e qualche lume 
sparso in un lento 
regno di chiatte e di vagoni, 
di ruggine vagante lungo il fiume, 
dove il cigno e il gabbiano sono amici 
col petto bianco puntato contro il fango. 
Più avanti, a lato della foce, 
un prato di trifoglio nella pioggia: 
in mezzo vi s'ammucchiano le nostre 
giacche, le anime e i loro 
segreti scoloriti, le belle 
bottiglie tracannate 
da una gola tenera, feroce. 
E Cristo passa, 
astro avvolto di nebbia o nido 
per le stanche farfalle che partono da noi, 
dolce luce d'olio. 

(Da "Partenza da Greenwich", 1955)





SASTAVCI
di Margherita Guidacci (1921-1992)

Prendi i miei occhi, prendi i miei occhi, Sastavci!
perché ti occorre un occhio umano
per specchiare le tue tenere nebbie,
gli arcobaleni che si levano in volo
come farfalle sul tuo gran fiore d'acqua
dai petali eternamente riversi.

Prendi i miei orecchi, prendi i miei orecchi, Sastavci!
A che pro la tua voce senza ascolto,
tanta invitta ostinazione di musica,
se nessuno conta le tue brezze e i tuoi angeli,
nessuno trema alla tua ira o si esalta
al rintocco delle tue fonde, invisibili campane?

Eppure no, tu non vuoi specchio né conchiglia!
È terribile il vuoto lucente
dal quale non riusciamo a emergere per te.
Ecco, ci allontaniamo, ed è come se mai
occhio né orecchio creato ti fosse passato davanti.

Nulla ha turbato la tua solitudine.
E invece noi ce ne andiamo pensosi,
ravvisando nel nostro stesso cuore
l'abisso e il canto di Sastavci.

(Da "Terra senza orologi", 1973)





LA DOMENICA DI BRUGGIA
di Marino Moretti (1885-1979)

Chinar la testa che vale?
E che val nova fermezza?
Io sento in me la tristezza
del giorno domenicale,

del giorno crepuscolare
nel quale l’anima prova
il bisogno d’una nuova
solitudine, e d’andare...

e di andare fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio
per vedere un paesaggio
lagunare che si aduggia!

Qui nessun ti vuol più bene,
qui nessuno ti vuol più,
e tu, dolce anima, e tu
va pur dove ti conviene:

ti conviene fare un viaggio
per cacciare un poco l’uggia
ed andare fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio.

          *

Oh dolcezza del mio cuore,
dei miei sensi un poco stanchi!
Vanno i cigni, i cigni bianchi,
van sul pio Lago d’Amore;

van gli uccelli frettolosi
frettolosi sui canali,
vanno insieme, uguali uguali,
sotto cieli freddolosi;

nel mattino che par sera,
tra la nebbia fine fine
vanno insieme le beghine
le beghine alla preghiera;

nel mattino che par sera,
vanno unite unite unite
le romite le romite
le romite alla preghiera,

vanno là presso l’altare
del dolcissimo convento
mentre io sento io sento io sento
un desio folle d’andare...

sì, di andare fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio
per vedere un paesaggio
lagunare che si aduggia.

          *

Oh dolcezza del mio cuore!
Tra la nebbia fine fine
vagan meste pellegrine
presso il pio Lago d'Amore,

e guardando il bel paese
che di nebbie ancor s'ammanta
pregano pregano Santa
Elisabetta ungherese!

Lenta lenta lenta va
nei canali l'acqua verde
e co' suoi cigni si perde
nella grigia immensità,

nell'eterno mezzo lutto,
mentre il giunco tristemente
s'è chinato a bere il flutto
della placida corrente.

Il tintinno d'una folla
di campane fa tremare
lievemente la corolla
d'uno smorto nenufare;

scioglie il salcio la sua chioma
e il suo pianto nel canale
e diffondesi un aroma
pio d'incenso e di messale;

s'alza il tiglio da una corte
a guardar l'acqua che va
nella grigia immensità,
nelle braccia della morte:

laggiù in fondo, nelle amare
solitudini ove anch'io
sarò un dì col mio desio
implacabile di andare...

sì, di andare fino a Bruggia
fino al vecchio beghinaggio
per vedere un paesaggio
lagunare che si aduggia.

          *

Nel viottolo dai tetti
rossi e azzurri, lustri e bassi
fanno i lor piccoli passi
verso il ponte i zoccoletti;

nella piazza del Trecento
verso il pio Lago d'Amore
i mantelli di due suore
vanno via gonfi di vento;

in stanzette linde e tristi
presso tende di percalle,
sotto mani ossute e gialle
sboccia sboccia il punto mistico,

(i giacinti al balconcino
che s'affaccia sul canale,
i gerani al davanzale,
le candele all'altarino,

e sul tombolo i profili
di Suor Anna e di Suor Rita,
e il passare delle dita
intreccianti ratte i fili);

sotto aguzzi e lustri tetti,
sotto mani ossute e gialle,
sboccian facili i merletti
come i fiori dal percalle,

e han l'odor di sacrestia
della tepida Casina,
sotto un guardo di beghina,
sotto un guardo di Maria.

Ma poiché scende la sera
lascian tacite il lavoro
le beghine, e vanno in coro
vanno in coro alla preghiera;

e poiché scende la sera
vanno unite unite unite
le romite le romite
le romite alla preghiera;

vanno là presso l'altare
del dolcissimo convento
mentre io sento io sento io sento
il desìo d'andare... andare

sì, sì andare fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio
per vedere un paesaggio
lagunare che si aduggia.

          *

O dolcezza del mio cuore,
de' miei sensi un poco stanchi!
Vanno i cigni, i cigni bianchi
sovra il pio Lago d'Amore;

lenta lenta ancora va
nei canali l'acqua verde
e co' suoi cigni si perde
nella grigia immensità:

e sull'umile città
che dal tempo s'allontana
piange piange la campana
dall'alto del Beffroi;

e nell’aria che s’annera
al cader del vecchio giorno
piangon essi tutt’intorno
i "carillons" della sera...

È in questo crepuscolare
giorno che l’anima prova
il bisogno di una nuova
solitudine, e di andare...

e di andare fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio
per vedere un paesaggio
lagunare che si aduggia,

e di far questo viaggio
per cacciare un poco l’uggia,
fino a Bruggia, fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio!

(Da "Poesie 1905-1914", 1919)





TOLLBRIDGE
di Salvatore Quasimodo (1901-1968)

A un sole di salnitro grigio di maestrale
i gabbiani di Tollbridge
urlano sotto l’arco di ferro del Sognefjord
che ripete schemi di fughe
all’aria lanciata sui tralicci
sottili. Il Nord salta sulle isole
di pietra barbara, istiga i suoi mostri
con immagini vere, spreme il succo
dei frutteti di mele nel suo
lungo giorno notturno. Luce
uniforme sui colori delle case di legno
e le siepi di filo a raggi di spine.
Quanto mio futuro posso contare
sullo schermo di sigle
impassibili, di apparenze!
Da questo eterno incontaminato,
in uno spazio di macigni, di alberi
norvegesi, non grido di paura
alla natura che precipita
mentre cerco un tempo senza forma.

(Da "Dare e avere", 1966)





DALL'OLANDA: VOLENDAM
di Vittorio Sereni (1913-1983)

Qui acqua cent’anni fa
- ripeteva la guida Federico -
oggi polder.
                 Vita
tra polder e diga, qui c’è posto
per la proceazione solamente
e la difesa della morte. Questo
dicono le facce arrossate dal freddo
fuori dalla messa cattolica 
a Volendam, la nenia 
del vento volubile tra i terrapieni.
L’amore è di dopo, è dei figli
ed è più grande. Impara.

(Da "Gli strumenti umani", 1965)





DALLA TORRE EIFFEL
di Sergio Solmi (1899-1981)

Nascevi mentre declinava il secolo,
sorgeva la speranza. Era la dolce
Europa. Sterminate
oscure moltitudini discese
in proscenio, tumultuando urgevano
all’avvenire. Gli ingegneri armati
di folgori violavano
la notte millenaria. Ma nei calmi
viali del Campo di Marte frusciavano
brillanti limosine, in bianco e rosa
passava Odette de Crécy. 
                                     Eri sempre
la dolce Europa, eri la speranza.
Oggi è ancora la città enorme a picco
- neri edifici, rosse insegne -, e il chiaro
anello della Senna. Ma, su questo
vertice estremo
di ninnolo gigante, ci sentiamo
gli sconfitti superstiti
raccolti intorno all’ultima bandiera.
Per te, in un campo e l’altro, combattemmo
e ti perdemmo alla fine. Due volte
in sangue faticoso
si volse la speranza. Oggi si spostano
le mire, il fior di fuoco si dirama,
altre isole l’ambiguo mare svela,
altri nomi s’accendono, altri mondi.
Ma noi siamo feriti, e vecchi, e stanchi.

Ecco, nel cielo occiduo balena
la perenne battaglia inesauribile
si fa e sfa la cangiante
geografia dell nubi. A noi ne giunge
solo un lamento vano... o lo stridio
della gabbia che scende lungo i cavi,
lungo gli aerei dedali d’acciaio
incrociato, lungo la curva zampa
scheletrica d’insetto «liberty».

(Da "Poesie complete", 1974)