domenica 25 maggio 2014

Gli animali in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo (I)

Tra i moltissimi versi che i poeti italiani del Novecento hanno dedicato agli animali, sono andato a cercare quelli che, secondo i miei gusti, sono i migliori. Comincio perciò con queste dieci poesie e quindi, via via, ne aggiungerò delle altre. Come si noterà leggendole, la qualità è ottima e le categorie degli animali sono, più o meno, tutte rappresentate.


CHIOCCIOLA
di Bartolo Cattafi (1922-1979)

La chiocciola qui giunta
con millenaria lentezza
tutto mangia di colpo
il cespo delle idee
il groviglio dei segni
le radici di vita
e nel nulla disegna
nella piazza pulita
un arco di bava
schiuma spremuta da un guscio vuoto
parte di linea curva
d'ignote geometrie.

(Da "Segni", Scheiwiller, Milano 1986)





MISTERO
di Corrado Govoni (1884-1965)

O farfallina nata con l'aurora,
o destinata a sparire fra un'ora
come i fiori, che vivon così brevemente
che si può dire
si schiudono soltanto per morire;
grano di stella, palpito di luce,
ti crea l'uragano che travolge e romba,
o una goccia di pioggia ti produce?
Tu, forse, sai perché si nasce, si ama e muore,
tu che hai la culla, il letto e la tua tomba
nel profumato calice d'un fiore.

(Da "Il quaderno dei sogni e delle stelle", Mondadori, Milano 1924)





LA NOTTE DEI GATTINI
di Vivian Lamarque (1946)

La notte dei gattini
ti ho voluto del bene in più.
La notte dei gattini?
Sì, abbandonati come bambini.

(Da "Una quieta polvere", Mondadori, Milano 1996)





VARIAZIONE
di Giampiero Neri (Giampiero Pontiggia, 1927)

Si nasconde il gufo sul ramo
durante il giorno,
si adatta a una diversa parte
nel suo breve travestimento.
Ma col variare della luce
abbandona la sua muta inoffensiva,
nella sua forma e figura
si presenta al rituale appuntamento.

(Da "Teatro naturale", Mondadori, Milano 1998)





LE RANE
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Ho visto inondata di rosso 
la terra dal fior di trifoglio; 
ho visto nel soffice fosso 
le siepi di pruno in rigoglio; 
e i pioppi a mezz'aria man mano 
distendere un penero verde 
lunghesso la via che si perde 
lontano. 

Qual è questa via senza fine 
che all'alba è sì tremula d'ali? 
chi chiamano le canapine 
coi lunghi lor gemiti uguali? 
Tra i rami giallicci del moro 
chi squilla il suo tinnulo invito? 
chi svolge dal cielo i gomitoli 
d'oro? 

Io sento gracchiare le rane 
dai borri dell'acque piovane 
nell'umida serenità. 
E fanno nel lume sereno 
lo strepere nero d'un treno 
che va... 

Un sufolo suona, un gorgoglio 
soave, solingo, senz'eco. 
Tra campi di rosso trifoglio, 
tra campi di giallo fiengreco, 
mi trovo; mi trovo in un piano 
che albeggia, tra il verde, di chiese; 
mi trovo nel dolce paese 
lontano. 

Per l'aria, mi giungono voci 
con una sonorità stanca. 
Da siepi, lunghe ombre di croci 
si stendono su la via bianca. 
Notando nel cielo di rosa 
mi arriva un ronzìo di campane, 
che dice: Ritorna! Rimane! 
Riposa! 

E sento nel lume sereno 
lo strepere nero del treno 
che non s'allontana, e che va 
cercando, cercando mai sempre 
ciò che non è mai, ciò che sempre 
sarà... 

(Da "Canti di Castelvecchio", Zanichelli Bologna 1903)





AIRONE [5 (5.8.80)]
di Antonio Porta (1935-1989)

Airone, sono nati da te
(è una mia idea vera
e falsa nello stesso tempo,
fai conto che sia un gioco)
altri tipi di uccelli, no
non tutti, non esageriamo
ma è nato da te, io credo,
l'usignolo perché troppo diverso,
per riparare un errore della specie,
l'usignolo che fa tacere la notte
e dà struttura sonora alla notte, insieme
allaccia tutti i fili del silenzio lunare
ilare sorgente ultima di melodia
contro la sua assenza di voce, airone,
i tuoi striduli messaggi,
hai partorito l'invisibile usignolo.

(Da "Il giardiniere contro il becchino", Mondadori, Milano 1988)





IL VECCHIO UOMO E IL GIOVANE RAMARRO
di Gianni Rodari (1920-1980)

Storia di un vecchio uomo e di un giovane ramarro.
Il primo, considerando che il secondo sul muretto di tufo
muta la prima pelle colore del cuoio
per uscire verde nel sole una mattina d'estate,
si ricorda di quando a sua volta
lasciava le sue spoglie qua e là per la vita,
rinascendo scarno, gentile e impaziente,
senza dolore dalle vecchie ferite,
libero di sbagliare senza pentirsi,
di soffrire senza perdersi,
di perdersi senza paura,
ora che porta l'ultima pelle,
quella che lo attendeva sotto le altre
con rughe, macchie, cicatrici, tumori,
e molto è tentato di tenerla da conto,
ora che non ha più niente da regalare,
nemmeno la sua pelle che nessuno vorrebbe
perché la vecchiaia non è quotata in borsa,
prova nel petto una tristezza funesta
e afferra un sasso per schiacciare il piccolo mostro
più bello di lui, più bello di se stesso,
ma il ramarro guizza dimenticandolo immediatamente,
se ne va nella sua vita d'erba e di terra
dimenticando ogni ciottolo del tempo
e fuggendo dona un po' di vita anche al vecchio,
perché di tutto ciò che vive siamo vivi,
ma il vecchio non lo sa,
si ritira in fondo al petto con la sua tristezza,
se ne va con acrimonia agitando il bastone,
vattene, vecchio pazzo, 
la vita è una storia raccontata da un ramarro
sul vecchio muro di un cimitero.

(Da "Il cavallo saggio", Editori Riuniti, Roma 1990)





LA CAPRA
di Umberto Saba (1883-1957)

Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

(Da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1988) 





L'UCCELLINO BIANCO
di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)

Come una stella in pieno giorno
è tornato l'uccellino bianco,
l'uccellino dell'altr'anno.
Vuole la mia fortuna
o il mio danno?

(Da "Mosche in bottiglia", Mondadori, Milano 1975)





I LEONI
di Sergio Solmi (1899-1981)

Urlavano i leoni nella notte,
gonfiavano nel buio, dardeggiavano
l'ugola in fiamme al fanciullo atterrito.
Di sotto al vecchio armadio, d'improvviso
si stendeva la zampa imperiosa,
si stirava, graffiava l'impiantito.

Venne un giorno, scomparvero i leoni.
Non c'erano
alla stazione di Sovilla, sotto
le nuvole ronzanti, s'anche uscivano
dal gioco scomparendo
nel grano verde e i compagni, se presso
volavano i rametti al doppio colpo
lassù, dell'arboreo cecchino. 
                                        Non c'erano
più tardi,
nella città divampante, nei laghi
di fosforo, a filo
della pistola, nella gabbia cieca
del prigioniero.

                     Oggi che l'ombre
della sera s'infoltano, qualcosa
nel buio si rimuove, silenziosi
dall'infanzia ritornano i leoni?
Ah, ch'io più non ne tremi, ch'io con fermo
cuore m'avvii, ridiscenda
sulla soglia, a incontrarli.

(Da "Poesie complete", Adelphi, Milano 1974)

lunedì 19 maggio 2014

Poeti dimenticati: Francesco Di Chiara

Francesco Di Chiara nacque a Palermo il 6 febbraio del 1905. Sconosciuta è la data della sua morte. La sua raccolta poetica più importante uscì nel 1929 per le Edizioni del Ciclope col titolo "Fiabe e consacrazioni". Dei suoi pregevoli versi si occuparono vari critici tra i quali anche Pietro Mignosi.



Opere poetiche

"Fiabe e consacrazioni", Edizioni del Ciclope, Palermo 1929.



Presenze in antologie

"L'Adunata della poesia", 2° edizione, a cura di Arnolfo Santelli, Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo 1929 (pp. CCXXXII-CCXXXV).
"Novissima Antologia", a cura di Pasquale Ceravolo, I Quaderni di «Il Pensiero», Bergamo 1929 (pp. 135-137).
"La poesia italiana di questo secolo", a cura di Pietro Mignosi, Edizioni del Ciclope, Palermo 1929 (p. 123).

"La nuova poesia religiosa italiana", a cura di Gino Novelli, La Tradizione, Palermo 1931 (pp. 136-138).



Testi

AL SONNO

Viene la morte, sorella taciturna, ogni sera a trovarmi,
s'accosta coi suoi leggeri piedi calzati di buio velluto,
di tutte le mie tristezze viene a racconsolarmi,
e perdo ogni mio pensiero adorato o temuto.

Ed io, che so, m'accosto con cuore giulivo a ogni sera,
con anima stanca e ansiosa di folle libertà,
e guardo sorridendo, di tra l'oscurità,
venire l'amante bruna, mite, soave, leggera.

- Addio - mormoro allora - odii ed amori, addio!
per quella via che imbocco voi non potete seguirmi... -
E con la bocca ansiosa, sentendo la vita fuggirmi,
bacio le tue labbra dolci, sonno, abbandono, oblio...

(Da "Fiabe e consacrazioni")

lunedì 12 maggio 2014

La Madonna nella poesia italiana decadente, simbolista e crepuscolare

Molto presente nelle poesie italiane, la Vergine Maria rappresenta per antonomasia la maternità ed è anche la figura femminile più rilevante della religione cristiana. I poeti decadenti e simbolisti la ritraggono in più di una maniera: bellissima, dallo sguardo incantatore, capace di creare un'atmosfera magica, che essa sia raffigurata in sculture o in pitture, è simbolo del divino e dell'amore universale. Ma nelle poesie dei crepuscolari ecco che le immagini della Madonna divengono meno sfolgoranti e assumono caratteristiche che fanno pensare alla povertà e alla sconfitta: essa si presenta in forme misere nei piccoli tabernacoli che spesso si trovano in luoghi poco frequentati e, addirittura, a volte non sono altro che delle rovine in cui rimane solo una scritta ad indicare la remota presenza di una immagine della Madonna.



AVE
di Sandro Baganzani (1889-1950)

Piccola pettinatrice ebrea,
mi è dolce pettinarti così.
Venne l'angelo,
poi nacque Gesù.
Ma sei la donna di Maggio:
tra le rose di tutto il mondo
nessuna è più fresca di te.
Poiché
i tuoi occhi sono eterni,
i tuoi capelli sono sottili
carezzati dalle mani
di Gesù.
Poiché
nessuno ti può chiedere grazia
senza che Tu lo ascolti.
Il tuo Cuore è lo specchio
dove ciascuno si può specchiare
che abbia sete d'amare.
Sei bella
più del Tuo mite nome, Maria,
sei grave
più della musica dell'organo
che fa piangere.

Piccola Pettinatrice, Ave!

(Da "Senzanome", Mondadori, Milano-Roma 1924)





VALLE D'ADORNO
di Giovanni Camerana (1845-1905)

Nell’alta ombra il tuo volto
Vergine contemplai;
In una pia, raccolto,
Estasi, ti adorai.

Ricontemplarti ancora
Volli, e l’alpe varcai;
Il mio lutto in quell’ora
Santa, dimenticai.

L’Arte non ha ideali
Fulgenti al par di te;
Fra tutti i floreali
Fiore più bel non v’è.

Sembra esultar la zolla
Sotto il divin tuo piè;
Ti saluta la folla
Come al passar del re.

Così superbamente
Nel nimbo mattinal,
Stupenda adolescente,
Tu porti il sideral

Tuo nome di Regina;
Gagliardo e trionfal
Così sulla marina
Trascorre il maestral.

Vidi, e quella memoria
Serbo, reliquia, in cor,
Fra i monti, nella gloria
D’un crepuscolo d’or,

Staccarsi in ombra queta
Lo spagnuolo pallor
Della tua faccia lieta;
Caldo lunare albor.

Fumavano dai boschi
Le case, un grigio vel
Correa pascoli e foschi
Balzi, era d’ambra il ciel;

Salìan, tremante incenso,
A te il fumo ed il vel,
Era il braciere immenso
La valle tua fedel.

(Da "Poesie", Einaudi, Torino 1968)





L'IMMAGINE
di Giuseppe Casalinuovo (1885-1942)

Sbiadita, informe, chiusa in una griglia,
una madonna guarda senza posa,
per la viuzza piccola ed ascosa,
aspra di selci e molle di fanghiglia.

C'è da tanti anni, e il tempo l'ha corrosa,
e ogni anno più scolora e s'assottiglia,
e sotto l'arco grande delle ciglia
si fa sempre più triste e più pensosa.

Il volgo passa e ciancia, indifferente
a quella vecchia immagine sbiadita
che tanto un dì sorrise alla sua gente.

Solo una vecchia pallida e smarrita,
che all'ave torna a lei devotamente,
pensa che piange sulla nostra vita.

(Da "La lampada del poeta", Zanichelli, Bologna 1929)





LA MADONNA E IL SUO LAMPIONCELLO
di Sergio Corazzini (1886-1907)


I

Umilmente la Vergine pregava,
e ne la voce avea tanto dolore,
e il suo cuore, trafitto, sanguinava:

«O lampioncello, fallo per mi’ amore,
tu se’ il compagno mio, tu sei la stella
che mi dà pace con il pio chiarore;

tu sei fratello, io sono tua sorella,
senti: ho paura di stare all’oscuro,
senza il raggietto de la tua fiammella!

Ardi, ed il cuor dolente rassicuro,
ardi, ti prego, lampioncello rosso,
come il cuor di Gesù, tremante e puro...»

Ma il lampioncello sospirò: «Non posso».


II

E Maria seguitò umilemente:
«Perché non puoi? Se tu sarai buono,
come una stella ti faccio splendente

e il tuo disobbedire ti perdono.
O lampioncello, o lampioncello mio,
mi sembra di sentir, lontano, il tuono!

Qui sono sola ed assai lunge è Dio!
Qui sono sola, assai lunge è il mortale;
sono fatta d’oblio, d’oblio d’oblio...

Non un passero batte la su’ ale
contro il mio volto, o lampioncello rosso,
ardi! Ho tanto timor del temporale...»

Ma il lampioncello spasimò: «Non posso».


III

La sera dopo, era una sera mite,
piena di trilli, piena di fiammelle,
di voci mai prima d’allora udite,

umilmente, una mano, una di quelle
mani che sanno spesso l’altra mano,
una mano tranquilla che il ribelle

gesto non seppe mai, piano piano,
il solitario lampioncello accese:
s’udì una prece, dolce, un passo umano

lontanare, laggiù, verso il paese
che dormiva da tempo, ne la sera.
Invano, invano il lampioncello prese

fuoco: Maria suavissima non c’era...


IV

Umilmente chiamò, umilmente
attese. Pensò perché mai Maria
fosse fuggita senza dirgli niente,

la sua dolce compagna, la sua pia
sorella! Aveva dunque una sì folle
paura de la solitaria via?

E il lampioncello, disperato, volle
giungere al cielo con la sua fiammella...
Ah, se fosse mai nato su quel colle!

Pregò ancora: «Maria, buona sorella,
ti farà luce il lampioncello rosso,
oh vieni, vieni, la serata è bella!»...

Ma la Madonna singhiozzò: «Non posso».

(Da "Poesie edite e inedite", Einaudi, Torino 1968)





TABERNACOLO
di Corrado Govoni (1884-1965)

Io visito sovente nel mattino
o pure nel crepuscolo rosato
un religioso tabernacolino
nel canto d'un chiassuolo desertato.

Ed al chiuso cancello intrecciato
sempre vi trovo qualche gelsomino,
o un fresco bucaneve immacolato
che vi dispone un gracile bambino.

Su l'altare di legno scolorito,
una Madonna in tunica di raso
piange soletta con rassegnazione,

e un bronzeo lucernino arrugginito,
tra le rose di carta dentro un vaso,
spande la sua rossa orazione.

(Da "Le fiale", Lumachi, Firenze 1903)





LA MADONNINA DEL DIRUPO
di Agostino Mersi (1882-1943)

Oilà più di cento primavere vide
fiorir la madonnina umile e sola,
che là dal ciglio de l'alpestre gola
ai casolari e ai pascoli sorride!

Mite ella accheta il turbine che stride
e curvando le selve ampie trasvola,
veglia le sorti de le audaci guide,
ode le preci di lor famigliola.

Serti nivali e diademi rossi
d'accese aurore a lei donano i monti,
e le schiudono a' piè le alpestri rose.

E quando, dal morente sol percossi,
splendon come are i vertici, le fonti
sussurran lievi avemarie pensose.

(Da "Canti solitari", Unione Biellese, Biella 1914)






LA MADONNA DEL SASSOFERRATO
di Marino Moretti (1885-1979)

In mezzo a vecchie carte un bel «santino»
oggi ritrovo: il volto addolorato
d'una madonna del Sassoferrato
tutta chiusa nel suo manto turchino.

Dietro il foglietto che à un odor di cera
si legge: "Per ricordo di Vincenza
e di Ginevra Piattoli. Indulgenza
di 100 giorni". E il titolo: PREGHIERA...

O Vincenza, o Ginevra, o mie padrone
di casa (finalmente vi ritrovo
nella memoria!), fate ch'io di nuovo
sia da voi, nel vostro eremo, a pensione.

Fate ch'io viva nella stanza in cui
mi facean compagnia tanti ritratti
e ch'io carezzi il pelo ai vostri gatti
e ch'io ritorni un po' quello ch'io fui!

Dal giorno che mi deste per saluto
questa Madonna del Sassoferrato
oh se sapeste come son mutato,
oh se sapeste come son perduto!

Dal giorno triste della mia partenza,
dal giorno in cui piangendo vi lasciai
io non volli, io non seppi acquistar mai
un giorno, un solo giorno d'indulgenza!

Dolce la stanza mia quando era invasa
dalle prime ombre, e a me lenta venia
il metro della vostra salmodia
da un'altra stanza buia della casa.

Dolce era aprire un vostro libriccino
in un momento di tristezza ignota,
a questa e a quella pagina remota
chiedendo un po' di pace e di latino!

O Suor Vincenza, io vi rivedo china
al domestico altare in miniatura,
e per pregar la bocca à una più dura
piega sul vostro volto di beghina!

O Suor Ginevra, attenta alla domanda
del pensionante io vi rivedo ancora
mentre passa un pensiero che vi accora
sul vostro volto di vecchia educanda!

Nulla mutaron nella vostra vita
gli anni che passan facili nell'ombra
quando una teda basta alla penombra
e la discesa è quasi una salita;

ma quegli che ama solo il suo passato
vi pensa e piange con dolente metro,
e legge... legge il vostro nome dietro
alla Madonna del Sassoferrato...

(Da "Poesie scritte col lapis", Ricciardi, Napoli 1910)





GUARDIE DI NOTTE
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

All'angolo della via,
come due enormi carabinieri,
fanno la guardia
due cipressi neri.
E alle lor rigide gambe,
l'ultimo avanzo s'affida,
d'un vecchio tabernacolo rotto,
si legge ancora sotto:
Salutate Maria.

(Da "Poemi", Cesar Blanc, Firenze 1909)





CEPPO
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

È mezzanotte. Nevica. Alla pieve
suonano a doppio; suonano l'entrata.
Va la Madonna bianca tra la neve:
spinge una porta; l'apre: era accostata.
Entra nella capanna: la cucina
e piena d'un sentor di medicina.
Un bricco al fuoco s'ode borbottare:
piccolo il ceppo brucia al focolare.

Un gran silenzio. Sono a messa? Bene.
Gesu trema; Maria si accosta al fuoco.
Ma ecco un suono, un rantolo che viene
di su, sempre più fievole e più roco.
Il bricco versa e sfrigge: la campana,
col vento, or s'avvicina, or s'allontana.
La Madonna, con una mano al cuore,
geme: Una mamma, figlio mio, che muore!

E piano piano, col suo bimbo fiso
nel ceppo, torna all'uscio, apre, s'avvia.
Il ceppo sbracia e crepita improvviso,
il bricco versa e sfrigola via via:
quel rantolo... è finito. O Maria stanca!
bianca tu passi tra la neve bianca.
Suona d'intorno il doppio dell'entrata:
voce velata, malata, sognata.

(Da "Myricae", Giusti, Firenze 1903)





AVE MARIA
di Enrico Pea (1881-1958)

Passeggero che passi per la via,
non ti scordar di salutar Maria.
Ti porterò le primizie di maggio,
e niuno potrà esserne geloso.
Nemmeno l'altra che ha denti di neve
e marita le burle alle passioni.
Chi è geloso di Maria Regina
non sa che il fuoco brucia e l'acqua bagna.

L'erba ti porterò che sempre odora,
erba Santamaria, foglie e coltello,
e le viole che crescono in silenzio
tra i colaticci di tre metri d'orto:
un mazzolino con le foglie in tondo
legato stretto con lo stame rosso,
come fanno di maggio per la dama
quelli del mio paese a cor beato.
L'offerta è poveretta a una Regina,
alla Regina di tutto il Creato.

E' come se portassi un'oncia d'oro
al tesoro del gran re Salomone;
è come un chicco di grano al granaio
di Faraone, un trifoglio in un prato.
E' come se volessi col mio fiato
alimentare una bufera immane
o portare all'oceano un contributo
con il pianto dei miei occhi mortali.

Hai per diadema le stelle del Cielo,
Madre, e ti offro un mazzetto di fiori
con queste poche sillabe d'amore
nella speranza di tornarti in core.

Mi faccio bimbo e ti chiamo Maria
e mi risponderai come rispondi
ai piccolini cui inanelli il capo.
Rimandami il tuo Angelo custode:
il poeta è creatura che si turba,
ché ha paura a rimanere solo.

(Dalla rivista: «Italiano», aprile 1928)





DOLCE SIGNORA
di Giulio Salvadori (1862-1928)

Dolce Signora,
quanta tristezza,
quante miserie,
quanto dolore
  Quaggiù! né un'ora
senza amarezza
passa, né gioia
senza terrore.

Solo il tuo sguardo
tanto soave
rinfranca l'anima
impaurita.
  Il foco ond'ardo
posa; men grave
è ogni martirio;
torna la vita.

La tua dolcezza
chi può pensare?
come, a comprenderla,
misero io sono!
  Il cuor si spezza;
lacrime amare
piange, né credere
vuole al perdono
  talora: e intanto,
dolcissim'onda,
come in un arido
fiore rugiada,

  la tua lo pènetra
pietà profonda,
ed all'altissima
pietà fa strada.

(Da "Liriche", Vita e Pensiero, Milano 1933)





FLORA MIRABILIS
di Emanuele Sella (1879-1946)

O dolcissimo angelico linguaggio,
parola ardente che alle stelle arrechi
il dolce invito della fioritura,
sboccia alla tua carezza il fior dell'ètere
e si compie il prodigio ed una flora
incandescente popola l'azzurro!

Meteore satelliti pianeti
e stelle fisse un bel desìo travolge
d'esser giacinti e fiordalisi d'oro.

Le Pleiadi diffondono nel cosmo
l'iride infranta dell'opale lattea
d'un niveo giglio ed Orione assume
l'eleganza d'un mistico asfodelo.

Ma tu, fra i fiori della luce, esulti
circonfusa d'angeliche fragranze
e di zodiacali edere cinta,
unica stella, stella delle stelle,
Alta Madonna, simbolo di Dio
nell'algoritmo dell'eternità.

(Da "Il giardino delle stelle", Zanichelli, Bologna 1907)





CANZONE ALLA VERGINE
di Federigo Tozzi (1883-1920)

Parevami toccar quasi le cime
delle guglie d'enormi cattedrali,
quand'io vedea formate le mie rime
ventando un poco una dolcezza d'ali.

E, dopo una Madonna di Neroccio
mi sorrideva che mi convertissi;
e come l'acqua appena giunta al doccio
così pareva a me ch'io l'obbedissi.

E feci bene. Ma non vidi subito
come accolto sarei nell'infinito:
e pure di salire più non dubito
or che mi sento come preferito.

Preferito da te, dolce Madonna,
da te, che non disdegni quel che dico;
e se talvolta l'anima si assonna
tu la ridesti col tuo volto amico.

E m'inviti a venir su le ginocchia,
perché tu sai che sei la Madre eterna,
la Madre bella che non ha sirocchia,
la più benigna ed ultima lucerna.

Oh, quando tu mi prendi sopra i polsi,
e mi porti fin quasi alla tua bocca!
Oh, come di dolcezza mi trabocca
l'anima che per il tuo amore sciolsi!

Oh, come tutto è gaudio che sorride
in ogni parte! E come tu rispondi
da dove prima l'anima ti vide
leggiadra de' misteri tuoi profondi!

È il tuo grembo che ride ed ha splendore
di stelle innumerabili rinate
nel cielo pieno, tutte dal tuo amore
e dalla bontà tua costì chiamate.

Della natura se' la veste eterna
che d'anime si adorna come gigli
e l'unico suggello hai ne' tuoi cigli
di tutto 'l tempo ch'entro lor s'interna.

E la canzone mia così venuta
fino a pregarti dove l'odi meglio,
ora dinanzi al tuo cospetto ammuta
come l'anima fosse innanzi a speglio.

O paradiso dove il gaudio è come
la materia che foggia la sua incude!
O paradiso dolce di tue chiome
ché te, Madonna, per sua gloria chiude!

Certo, il tuo ventre fa sognare ancora
la sua grande dolcezza e la salute
che per il mondo tuo traesti fuora
a ripigliare le anime cadute.

Ventre misterioso, dove a noi
rinnovellasti la terrena origine,
viene da dentro te la scaturigine
che mi disseta co' piaceri tuoi!

E l'anima mia sento divenuta
come la veste che t'avvolge tutta.
Ella t'ama da quando t'ha veduta,
e nel tuo caldo le sue gemme butta.

Ricordo quando l'angelo a te venne
da una purezza simile alla luce;
come la primavera i fiori adduce
così l'anima a te l'eterne penne.

E sì come la luce un corpo tocca,
l'angelo fermo, al sole simigliante,
venne a toccare alquanto la tua bocca
portandoti le sue parole sante.

Ave, Maria, ti disse. E ti sembrava
che l'anima gravata di un suo giglio
sognasse troppo. E l'angelo indugiava
soave ad annunciarti il Grande Figlio.

Par che tu sappia qualche cosa, ed io 
non possa mai saperlo; benché trovi
che tutto quel che dici è del tuo Dio,
i cui misteri sono sempre novi.

Ed incontrarti prima che la via
divenga troppo lunga! Il tuo sorriso
par che rifletta a me l'anima mia
per l'amore che senti, com'io avviso.

Or da per tutto il manto vedo scorrere
il tempo come un fiume senza foce;
io lo vedo rossigno d'una croce,
e tutto il mondo all'ombra sua soccorrere.

O mia canzone simile a una spada
confitta in una pietra (e vibri ancora
del colpo che t'aprì la dura strada)
nessuno di costì ti tragga fuora.

(Da "Le poesie", Vallecchi, Firenze 1981) 

domenica 11 maggio 2014

La mamma in cinque poesie di cinque poeti italiani del XX secolo

Le poesie qui presenti hanno, come argomento principe, la mamma, e, cronologicamente parlando, appartengono tutte ai primi anni del XX secolo. Al di là del valore di ognuna, ciò che le accomuna è la presenza di una palpabile malinconia, peculiarità fondamentale di quella scuola poetica che fu definita crepuscolare. In verità dei quattro, l'unico vero poeta crepuscolare è Marino Moretti; è pur vero che gli altri quattro, in modi diversi, sfiorarono il crepuscolarismo. Giuseppe Caruso, per cominciare, fu amico di Sergio Corazzini e, nelle poche poesie che scrisse, ne sentì l'influenza. Non fa eccezione A mia madre, seppur uscita nel 1902, quando Corazzini ancora doveva pubblicare i suoi primi versi. Umberto Saba fu in un certo modo crepuscolare soprattutto nella primissima fase della sua carriera poetica, quando molto spesso nei suoi versi si registravano temi e pensieri molto simili a quelli presenti nelle poesie di Marino Moretti (al quale alcuni critici lo paragonarono). Diego Valeri può invece essere definito un epigono o, ancora meglio, un seguace della poesia crepuscolare, specialmente nelle sue prime opere in versi e più di tutte in Umana (dove si trova la poesia Io non ho fiori...). Giuseppe Zucca, infine, durante il breve periodo in cui scrisse dei versi, mostrò una evidente propensione all'intimismo.
Malinconia, tristezza, a volte disperazione emergono da questi versi che a me paiono molto belli e vogliono rappresentare in modo onesto e intenso quei sentimenti basilari che molti figli provano nei confronti della madre.



A MIA MADRE
di Giuseppe Caruso

Ero solo e piangevo...
Il sordo rumore del treno
rompeva il silenzio dei campi
all'ora mattutina.
E passavan veloci,
nell'ombra ancora indistinte,
le verdi campagne
dinnanzi ai miei occhi: e piangevo...
Non so: nella mente confusa
nel cor, pieno d'affetti,
sentivo un affetto a me nuovo,
a me stesso incompreso.
Era l'ultimo addio delle cose?
Era il pianto di mia madre,
che ancor mi bagnava le gote?
Non so: sulle fresche verzure
cantava il colono; per le tacite vie silenti
movevano i carrettieri:
e pensavo mia madre e piangevo...
Vedi, le dicea, sognando,
è l'alba: e ci sembra sì triste,
perché l'anima piange.
Poi quando saremo lontani
vedremo i tramonti dorati,
e piangeremo insieme...
Correva veloce il vapore;
fuggivano i monti ed i piani,
ed io solo piangevo...

(Da «Ateneo Letterario Artistico», aprile 1902)





NELLA CLINICA DEL PROF. MAZZONI 
(CORSO D'ITALIA, 33)
di Marino Moretti (1885-1979)

Mamma, preghiamo insieme.

Il cuore è un po' malato, e ride e geme.
Sporgiti dal marmoreo davanzale,
e guarda il sole del Corso d'Italia
ch'è sì dolce su gli alberi potati.

Mamma, guardiamo insieme
queste Sorelle care al Papa morto,
che han la Madonna nell'orto
e il Crocifisso sul petto,
un Crocifisso benedetto.

Mamma, piangiamo insieme
d'essere soli a Roma
col pensier della casa e del paese,
di ciò che fummo e di ciò che saremo
qui soli, a Roma.

O mamma quasi risanata (quasi),
preghiamo insieme
perché Dio veda l'angoscia che preme
sul cuore di tuo figlio.

Mamma, preghiamo insieme
la Madonna del Buon Consiglio.

Roma, 12 aprile 1916.

(Da «La Diana», aprile 1916)





A MAMMA
di Umberto Saba (1883-1957)

Mamma, c'è un tedio oggi, una non dolce
malinconia, che in ogni
vita à una preda, e fa umili i sogni
de l'uomo che àil suo mondo à nel suo cuore.
Mamma, ritornerà oggi a l'amore
tuo, chi a l'amore più non si rivolge?
Solo, e fuor de l'umano
gregge, questo tuo sempre più lontano
figlio, ti ritornerà?

Ed è un giorno di festa, oggi. La via
nera è tutta di gente, ben che il cielo
sia velato, ed un vento aspro a lo stelo
tolga il giovane fiore, e in onde gonfi
la gialla acqua del fiume.
Passeggiano i borghesi lungo il fiume
torbido, con violacee ombre di ponti.
Sta la neve sui monti
ceruli ancora; e la malinconia
viene in me da l'aspetto de la via,
triste senza l'usato
suono d'opere, o d'una nostalgia
insanabile è il tuo figlio malato? 

E tu pur, mamma, la domenicale
passeggiata riguardi, da l'aperta
finestra, ne la tua casa deserta
di me, deserta de l'unico bene.
Guardi le donne, i marinai; né scordi,
mamma, quel bene; non i tuoi timori
scordi, se gli ebbri o i lavoratori
guardi, che i rudi e lordi
panni, per me superbamente belli, 
oggi a gara lasciati ànno per quelli
de la festa, dai gran colori falsi.
Ma tu, mamma, non sai che sono falsi.
Tu non vedi la luce che io vedo.
Altra fede ti regge, che non credo
più, che sì cara nella puerizia,
m'era, quando il tuo Dio
vagheggiando, supino a mezzo il prato:
pensando ch'egli mi ti aveva dato,
mi salivano lacrime agli occhi.
Or, se i fanciulli a crocchi
vedi la libertà de la festiva
sera splendere in giochi,
ricordi come spesso io da quei giochi
rifuggivo lontano:
e non a la tua mano?

Ché dei tuoi crucci, dei tuoi molti guai
questa è la fonte, che in quei favolosi
tempi turbava i tuoi scarsi riposi,
come oggi il mio sdegno:
tese l'animo mio sempre ad un segno,
cui non tesero i miei compagni mai.
Tu di questo non sai
vivere lieta, tu che piangi, piangi
sempre, ne la tua casa deserta.
Là ti rivedo; e da non più aperta
finestra, con l'incerta
sera, de le campane entra un profondo
suono, il preludio de la dolce notte,
de l'insonne per te, gelida notte.
Ad ogni tocco, più verso la notte
è roteato il mondo.

Mamma, un tempo ci fu che udendo un suono
di campane, mirando quella sola
nube, che il vespro tinge di viola,
non so quale tristezza il cor più buono
mi faceva, più incline al tuo d'allora.
I miei pensieri ancora
vanno a quel tempo, benché grande e varia
sia la mia vita, con la solitaria
forza, onde godo di che ogni altro trema;
e quanto al volgo appar pena suprema,
d'estasi il cor mi riempie.
Non vidi i passi tuoi farsi più stanchi,
o dolce madre, e i tuoi capelli bianchi
su le povere tempie.

Ed un tempo ci fu, anche, che in ogni
cosa la più sapiente eri tenuta
da me, da me che la tua bocca muta
feci poi, con l'altezza dei miei sogni.
Tu pel fanciullo eri l'infallibile;
eri colei che non conosce errore:
L'umile tua parola nel suo cuore
scolpivasi così, ch'ebbe indicibile
angoscia, quando per la prima volta,
e come ogni altra, la tua mente folta
d'errori discoverse.

Mamma, il tempo fu quello che d'avverse
forze piena sentii l'umana vita;
sì che indugio a la mia casa il ritorno.
Ben mi apparvero eterne
verità, ma infinita
n'è l'amarezza, e in odio ebbi la vecchia
casa, il terrazzo ove leggevo Verne,
pallido d'ansia, ne le rosse sere.
Poi, nel sonno, sognavo l'Oriente
barbaro, e quanta gente
non vinceva la mia piccola mano!
Era incerto fra il riso e il pianto il ciglio
tuo su quel sonno: ora lontano è il figlio
unico, e il tempo fugge.

Mamma, il tempo che fugge
t'ansia, e l'ansia che impera
nel tuo cuore, c'è forse anche nel mio;
c'è, pur latente, il male che ti strugge;
sonvi le cure e le domenicali
malinconie.
Lentamente, ora sfollano le vie
ne la sera di festa, e verdi e rossi
accendono fanali le osterie
di campagna. La chiara
voce si effonde de la ritirata,
di canzoni l'enorme camerata
s'empie, turpi e gioconde. - E' l'ora, mamma,
l'ora che cresce affanno
ai cuori come il tuo, soli ed amanti,
di su gli ultimi mari ai naviganti,
dentro l'orride celle ai prigionieri.
Canterellando scendono i sentieri
del borgo i cittadini.
Torna dolce a ciascuno la sua casa.
Ed il mistero ond'è la vita invasa,
tu con preghiere esprimi. -

Mamma, il tempo che fugge
porta il rimpianto di quello che fu.
La vita intanto il nostro sangue sugge,
non so se dolorosa o bella più. -

(Da "Poesie", Casa Editrice Italiana, Firenze 1911)





IO NON HO FIORI...
di Diego Valeri (1887-1976)

Io non ho fiori da versar sul folto
tappeto di trifoglio e di gramigna
che veste la tua fossa; io non ho quasi
neppur lacrime più da lacrimare
sul tuo povero cuore seppellito
qui, sotto questa terra. Solamente,
io mi guardo, io mi cerco in fondo all'anima,
per veder te, per ritrovare il tuo
viso sfiorito di malata, e il riso
pallido de' tuoi dolci occhi di pianto,
e i tuoi capelli bianchi ancora sparsi
di qualche ciocca bionda, e le tue mani,
le tue ruvide mani ossute e gonfie
di vene azzurre, le tue sante mani
di mamma bruciacchiate al focolare...
E ti chiamo, ti chiamo con la voce
del desiderio mio che non ha pace
e confine non ha, né sa che sia
morte... - Ma in vano. In van mi scruto. In vano
t'invoco. Dentro l'anima mia cupa
che mi fa tanto male... O mamma mia,
tu non odi il mio grido! Ed io son solo,
solo qui presso a te, con te, nel calmo
cimitero, tra i marmi ed i rosai;
solo nella dolcezza stupefatta
di questo pomeriggio azzurro e bianco;
solo nel gran silenzio, in cui non odo
che un fruscìo di lucertola tra l'erba

e il soffio d'una rosa che si sfa.

(Da "Umana", Taddei, Ferrara 1916)





MAMMETTA
di Giuseppe Zucca (1887-1959)

Mammetta, tu che ti ricordi
tutto di me, le parole
piccole e quelle più grandi,
i sonni, i giochi, i pianti,
e solo hai dimenticato
le rispostacce cattive
che il mio rimorso non scorda;

mammetta, tu che mi dici
sempre che ancora mi vorresti
piccino per tenermiti ancora
sulle tue stanche ginocchia,
come quando a notte tarda
s' aspettava papà che tornasse
- papà che ora non torna più ! — ;

mamma mia, tu che ti fai
sempre più piccina, mentr'io
sono di tanto ingrandito
che appena giungi a baciarmi
qui sul petto, qui dove batte,
e io devo un po' chinarmi
per baciarti te sulla fronte

(fronte attenta e animosa,
così scarna qui sulle tempie,
con queste due ferme rughe
tagliate fra ciglio e ciglio
e, in mezzo, una macchiolina
rosea, una voglia di fragola
che intenerisce a primavera);

mammetta, tu che mi guardi
vivere, tu certo te le ricordi
queste cose tanto lontane
che la mia nostalgia rievoca
con un sorriso non so
se amaro o se dolce e un singhiozzo
qui in gola, ma più nel cuore.

E tu cercale, quelle memorie,
qui: son dette «lontananze».
Ciascuna è un bacio di me
fanciullo, a te e a papà:
papà
che dorme là dietro la pietra
dove io scrissi il nostro dolore;

e quelle due rondini di bronzo
si baciano e gli dicono: — Sai?
ti pensano sempre, ti pensano. —

(Da "Io", Formiggini, Roma 1919)