venerdì 14 febbraio 2014

L'amore in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Ho sentito tante e tante volte parlare d’amore nelle canzoni popolari, nei film, nelle poesie e alla televisione, eppure, questo amore, se dovessi definirlo con parole mie, non saprei farlo.

Però deve essere amore questo sentimento così intenso che io provo per te; deve esserlo se sento che non potrei fare a meno della tua presenza, se è vero che ogni tuo allontanamento da me diviene sofferenza atroce; se è vero che quando poi ti rivedo comparire, quando ti sento parlare, avverto un benessere indescrivibile, e corro ad abbracciarti ed a baciarti.

Deve essere per forza amore se spesso mi rendo conto che ora io, senza di te, mi sentirei totalmente perso, completamente solo e incapace di ricominciare a vivere; che mi preoccupo se stai male, se soffri, se sei infelice, e desidero il tuo bene più di ogni altra cosa.

Deve essere amore se la mia esistenza, adesso, dipende soltanto da te, è influenzata solamente dalla tua vita, che è tutt’uno con la mia.

Mi rendo conto di tutto ciò, eppure, ancora non ti ho mai detto “Ti amo”…




AMORE, PRESTO...

di Gaetano Arcangeli (1910-1970)

Amore, presto, sono
una luce che cade,
un'ora che declina...

Tu, ora che ascende,
tu, luce che si accende,
calore che si apprende,
non tardare più oltre
- non deviare! - a volgermi
quell'atteso baleno che mi salva...

Volgiti a questa parte, passo vivo
alacre dell'amata, qui scandisci
il ritmo del mio giorno, non altrove!

Qui qualche cosa giace disperata.

(Da "L'Appennino e nuove poesie", Mondadori, Milano 1963)





COME GLI UCCELLI
di Luigi Bartolini (1892-1963)

Abbiamo fatto, con l’Anna, come gli uccelli;
abbiamo fatto il nido in aprile
anzi, no, era di maggio, al primo, al due,
quando ci siamo messi a fare come gli uccelli,
ad ammassare stecchi tagliati da borzacchini.
Io sono andato dove strepono le macchine,
ho tagliato i legni con le mie mani
ho misurato tre metri per due.
E un baracchino tenero s’è rizzato per campi
dove stiamo in pensiero, io e la Anna,
a vedere cosa fa il lugubre mondo
e cosa fanno, invece, gli uccelli.

(Da "Poesie 1911-1963", Rebellato, Padova 1963)





NOI ABBRACCIATI LA NOTTE
di Libero De Libero (1906-1981)

Noi abbracciati la notte,
noi vide la notte a riva
del fiume sommersi
nel volto e nei capelli.
Noi l'aurora scoprì
strettissimi all'ala
delle mani e dementi:
e un albero, un altro albero
ancora ne parla alla gente.
Notizia avrai da un frutto
mangiato a primavera.

(Da "Romanzo", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1965)





DISTACCO
di Francesco Gaeta (1879-1927)

Partivi l'indomani. Io mi scuotea
da l'amor tuo siccome dal sopore
de la morfina, a cui chi cede muore:
un'osteria marina ci accogliea.

E ne la contentezza annegavamo
del cuor profondo il tremito, il richiamo:

e più ciascuno li fuggiva, e tanto
più in sé cercava tremito e rimpianto.


Entrò di suonatori un gruppo roco;
volò, fra i mandolini, una canzone
del tempo a noi felice... Ed un alone
sul monte Somma spaziò, di fuoco;

la vetta partorì quindi il lunare
disco; formicolò d'argento il mare:

pensavi tu, piangendo fra le mani
stellate di brillanti, a l'indomani.

(Da "Poesie d'amore", Laterza, Bari 1920)





L'ERBA, IL SILENZIO IL MUOVERE DELL'OMBRA
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Soli, nel pianto tuo della mattina,
l'erba, il silenzio, il muovere dell'ombra,
e gli steli del vento. Il tuo sollievo
è di vederti calma nell'attesa
ch'io giunga da lontano, il tuo riposo
è la speranza d'incontrarci a sera
per caso in un inverno.

Lasciarti per sparire,
per essere il tuo cielo dove guardi
senza rimorsi, avere il tuo rimpianto,
la tua memoria, le tue mani vuote...

Forse è più dolce piangermi che avermi.

(Da "Poesie d'amore", Mondadori, Milano 1973)





AMORE
di Guido da Verona (1881-1939)

Cadeva una sera d'estate sul bel Tibidabo,
sul bel Tibidabo che matura grappoli di soli.
Allora così le parlai, nella grande
ombra delle sue trecce ravviluppate,
che mi pesavan sul cuore:

 «E inoltre ancora, o donna passante,
così, non altro che così, donna, è l'amore.
Solleva i tuoi occhi di barbara;
il mio cuore oggi t'inghirlanda;
sei bella come l'estate - io sento ardere in me
la fiamma quasi d'oro del tuo colore di ghianda -
e ridi!... Ho bisogno di ricordarmi
che hai riso un giorno sul bel Tibidabo.

 E inoltre ancora, o donna passante,
se vuoi che il mio cuore come polvere
turbini quando sarò più distante,
laggiù, dove l'ombra del crepuscolo
trascina il profumo de' rosai,
da questa città luminosa, grande, bianca, non mia,
ridi, barbara!... tu sarai
un'ombra nel sole d'esilio che m'illumina la via».

 Ecco, e le campane delle chiese
uscivano dalle chiostre, brillando;
le ville sparse cantavano di chitarre assonnate:
vampe immobili di rosai
ridotti a mucchi di polline ubriacavano l'estate.

 «Ecco: ed inoltre ancora
la strada mi porterà più distante:
le fiamme del sole bruceranno
sul bel Tibidabo senza me.
Ieri, mi ricordo, nelle trecce
portavi un pettine cesellato
come le ebree di Marrakesh.
Ecco, da ieri tu sei
per me la donna che ho incontrata
passando in una strada sconosciuta,
colei che in un giorno di sole
rideva sul bel Tibidabo,
quell'ultima ond'io sentirò le trecce pesarmi sul cuore,
poichè per l'anima d'un navigatore
così, non altro che così, barbara, è l'amore».

(Da "Il libro del mio sogno errante", Corbaccio, Milano 1933)





IL TRENO
di Umberto Marvardi (1903-1990)

In questo treno che non ferma più,
amore, ci sei tu, e non so dove.
Ti cerco in ogni carrozzone e il treno
corre per piani, rimbomba per monti,
scavalca abissi e dei fiumi si bagna.
ormai sono crollati tutti i ponti,
immoti i mari e il verde, anche, ristagna.

Amore, ecco, d'azzurro ora m'appari:
nuvola bianca, sussurro di cielo,
sorriso d'aria rosa sul tramonto.

E il treno corre, corre dal profondo,
dentro la ferma notte luminosa.

(Da "Immagini e preghiere", De Luca, Roma 1972)





POESIA D'AMORE 
di Daria Menicanti (1914-1995)

Le giornate si sono fatte lunghe
i nembi caldi, soffici; marino
quasi
il vento guerriero.
E mi porta farfalle e cartoline
e sull'angolo 
te,
un irto di capelli e di sontuose
baruffe,
ma assai caro
egualmente,
assai caro.

(Da "Canzoniere per Giulio", Manni, San Cesario di Lecce 2004)





ANCHE TU SEI L'AMORE
di Cesare Pavese (1908-1950)

Anche tu sei l'amore.
Sei di sangue e di terra
come gli altri. Cammini
come chi non si stacca
dalla porta di casa.
Guardi come chi attende
e non vede. Sei terra
che dolora e che tace.
Hai sussulti e stanchezze,
hai parole - cammini
in attesa. L'amore
è il tuo sangue - non altro.

(Da "Poesie del disamore", Einaudi, Torino 1977)





TENEREZZA
di Nicola Vernieri (1893-1965)

L'invisibile spola della vita
già t'ha tessuto la sottile ragna,
di fili e nodi ai polsi ed alle dita,
     o dolce mia compagna.

Intorno agli occhi restano del riso
i raggi spenti; e sulla fronte chiara
il cuneo del corruccio già t'ha inciso
     la sua virgola amara.

Nel bel mantello dei capelli neri
c'è un riflesso d'argento che traluce:
forse un baco che fila fra i pensieri,
     o un punto che si sdruce?

Tu pure dunque l'età triste incalza?
Oh! potessi portarti senza fine
sul tempo, in braccio, come bimba scalza
     sui cardi e sulle spine!

(Da "Itinerario", Istituto Statale d'Arte, Urbino 1954)

giovedì 13 febbraio 2014

10 poesie d'amore di 10 poeti italiani del XIX secolo

Ti ho cercata in un dipinto, ma non ne ho trovato uno che raffigurasse una donna simile a te, se non in modo molto vago. Se ti penso mi vengono in mente certe donne che, probabilmente, non sono mai esistite, se non nella fantasia dei poeti; queste donne, non più giovani ma neppure anziane, aristocratiche, altere, solitarie ed estremamente malinconiche, trascorrevano le loro tristi giornate passeggiando nei viali dei parchi che circondavano le loro immense ville; e passeggiando pensavano ad un passato che promise molto e mantenne nulla; pensavano al loro gramo presente e ad un futuro senza speranza. A stento trattenevano il pianto, ed a ben guardarle, qualche lacrima facilmente scendeva dai loro lucidissimi occhi. Esse avevano avuto un'infanzia felice, e in gioventù, ingenue, avevano bramato e sognato il vero Amore. Ma l'abiezione umana e il cinico destino si erano abbattuti contro di loro, le avevano poste al di fuori della vita, in un limbo fatto di amarezza e di desolazione. Come fossero in esilio, taciturne e apatiche, esse vivevano soltanto di rimpianti e di ricordi. Per me tu, simile a quelle esistenze infelici, sei la Donna del Sogno Infranto, sei la Dama della Santa Tristezza, sei la Regina Inconsolabile del Regno Devastato. Io non so quanti anni hai, conosco a stento la tua voce e non so nemmeno il tuo nome, ma, per quel poco, quel nulla che ho compreso, mi basta il solo pensarti o l'immaginarti per illuminare la mia vita. Sarai per sempre nei miei sogni.



FINALMENTE!

di Vittoria Aganoor (1855-1910)

Dunque domani! il bosco esulta al mite 
sole. Ho da dirvi tante cose, tante 
cose! Vi condurrò sotto le piante 
alte, con me; solo con me! Venite! 

Forse... - chi sa? - non vi potrò parlare 
subito. Forse, finalmente sola 
con voi, cercherò invano una parola. 
Ebbene! Noi staremo ad ascoltare. 

Staremo ad ascoltare i mormoranti 
rami, nello spavento dell' ebrezza; 
senza uno sguardo, senza una carezza, 
pallidi in volto come agonizzanti.

(Da "Poesie complete", Le Monnier, Firenze 1912)





SE NON CI SEI...
di Giovanni Camerana (1845-1905)

Se non ci sei, mi sembra un sepolcreto
Questo villaggio;
Svanita è la malìa del paesaggio,
Del verde idillio queto,
Se non ci sei.

Se non ci sei, rifaccio il mio sentiero
A fronte bassa,
E i colli, i fior, la nuvola che passa,
Tutto mi è strano e nero
Se non ci sei.

Se non ci sei, se non ti leggo in volto
Che sai ch’io t’amo,
Che irrequieto ti sogno e ti chiamo,
Che il raggio mio m’è tolto
Se non ci sei;

Se non ci sei, mi avvinghia oscuramente
Nelle sue braccia
La Noia, incùbo dalla tetra faccia;
L’ore son nebbie lente
Se non ci sei;

Ma se ti trovo, sfuggon via col volo
Delle farfalle;
Ride la casa, un cantico è la valle,
Un trillo d’usignuolo,
Quando ti trovo!

(Da "Poesie", Einaudi, Torino 1968)





QUI REGNA AMORE
di Giosuè Carducci (1835-1907)

Ove sei? de’ sereni occhi ridenti
A chi tempri il bel raggio, o donna mia?
E l’intima del cor tuo melodia
A chi armonizzi ne’ soavi accenti?

Siedi tra l’erbe e i fiori e a’ freschi venti
Dài la dolce e pensosa alma in balía?
O le membra concesso hai de la pia
Onda a gli amplessi di vigor frementi?

Oh, dovunque tu sei, voluttuosa
Se l’aura o l’onda con mormorio lento
Ti sfiora il viso o a’ bianchi omeri posa,

È l’amor mio che in ogni sentimento
Vive e ti cerca in ogni bella cosa
E ti cinge d’eterno abbracciamento.

(Da "Rime nuove", Zanichelli, Bologna 1910)





IL VIADOTTO
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

Ella era meco. Forte stringeva il mio braccio ed ansava
contro il gran vento, muta, pallida, a capo chino.

Ahi, trascinato amore! Pareami sentire in su 'l braccio
(ella stringea piú forte) premere un peso immane.

Ahi, trascinato amore, con triste menzogna, per tanto
tempo, in sí dolci luoghi! Luoghi già tanto cari

Cupa, di sotto gli archi del ponte, muggiva in tempesta
ampia di querci e d'elci la signoria dei Chigi;

ma dal contrario colle, tra i mandorli scossi, ridea,
quale da rupe un gregge pendulo, Aricia al sole.

Pendula Aricia al sole ridea su la conca profonda:
ombra mettean le nubi cerula ne la fuga.

Era un Tirreno in vista, di lungi, una spada raggiante;
eran, di lungi, i boschi isole tutte d'oro.

Ma pe 'l mio cuor mutato, pe 'l duro cuor mio da le cose
ruppero in van fantasmi, ahi, del goduto bene!

Sorsero da le cose fantasmi bellissimi. Ed ella,
auspice Sole, ed ella era pur bella in vano!

Era pur bella, o Sole. Stringeva il mio braccio ed ansava,
contro il gran vento, muta, pallida, a capo chino.

Non a lei forse ignara parlavan le cose nel vento?
“Ei piú non t'ama, o donna misera! Ei piú non t'ama!”

(Da "Versi d'amore e di gloria", Mondadori, Milano 1968)





BIANCA
di Mario Giobbe (1863-1906)

Io v'ho, Bianca, rivista. Oh, voi non vale
niun'altra bellezza, ed io mi scuso
se d'amare altra femmina ricuso
come per voto. In fiero atto regale

voi passaste, e una dolce maraviglia
il cor de i riguardanti conquistò,
ognun con disiose, immote ciglia
sino in fondo a la via v'accompagnò.

Un cor di lodi allor subitamente
levossi intorno, e ognun s'estasiava
lodandovi. Sol io, muto, tremava,
come per suo rimorso un delinquente.

Né rimorso maggior credo che sia
di questo che ne l'anima mi sta:
d'aver con voi, per non so qual follia,
ripudiato la felicità.

(Da "Gli amori", Bideri, Napoli 1891)





AMORE
di Giuseppe Maccari (1840-1867)

Io t'amo, e il mondo mi sia pur nemico.
Solitario fra l'ombre de' giardini
Su la pura collina a Dio ne parlo,
Ed egli eternamente a me ti sposa.
Io t'amo, come de' gesmini al fino 
Olezzare, che l'anima saetta,
Per soavezza il capo si declina.
Io t'amo, ed or che la campagna langue,
In cerca vo della fragrante rosa;
Dimando un'infantile primavera,
Onde comporre a te l'inno più bello,
Che mai sonasse su le greche labbra.

Vo pe' viali lucidi ed aperti;
Ed ogni arbore tremola, ogni foglia
Al purissimo vento dell'autunno.
Il cocchio corre su la strada, e intorno
Passa qualche fanciulla, onde s'accresce
La serena bellezza di natura.
Fugge il mattino; scenderò dal colle.
Io l'andrò ricercando nelle chiare
Vie del paese; ch'oggi è dì festivo,
E vanno in giro tutte le donzelle.
Per gaiezza mi ride ogni pensiero.

(Da "Poesie e lettere", Barbera, Firenze 1867)





GABRIELLA
di Giuseppe Revere (1812-1889)

Cantai de' verdi paschi l'allegrezza,
e de' salici l'ombre addolorate
sovra i lucidi marghi de' fluenti
rivi canori,

dove tra l'erbe molli arcana spunta
la viola, sospiro delle meste
anime che pietose hanno pensiero 
de' cari estinti.

E là fuggendo la implacata guerra
della fortuna, ai verecondi amplessi
dello spirto chiamai la dipartita
donna del cuore.

A te i lividi fior colti nel tardo
campicel della mente, o Gabriella,
e de' miei ritmi il memore concento
che ancor t'invoca.

(Da "Opere complete", Fozani, Roma 1896)





SE APPARI...
di Giacinto Ricci Signorini (1861-1893)

Se appari - tra i chiari
Ricami del velo,
Io vedo, - e non credo,
Un lembo di cielo.

Se, o giglio - vermiglio,
Sollevi la testa,
Si sfrena, serena
Nel cuore la festa.

Ma, quando - guardando
Mi volgi un saluto,
S'ammorza - ogni forza
Mi sento perduto.

(Da "Poesie e prose", Zanichelli, Bologna 1903)





NON MI PROMETTERE...
di Igino Ugo Tarchetti (1839-1869)

Non mi promettere,
Eterno amore,
Lascia che libero
Batta il tuo core:
Non ti lagnare,
Non ti crucciare
Se amore i caldi
Giuri non tiene...
L’amor sen va
L’amor sen viene.

Nulla promettimi,
Voglio i tuoi baci;
Oggi puoi darmeli?
Baciami e taci.
Non vo’ giurare
Non vo’ pensare
Se il cor domani
Pur tuo sarà....
L’amor sen viene
L’amor sen va. 

(Da "Tutte le opere", Cappelli, Bologna 1967)





AMORE VIVO
di Remigio Zena (Gaspare Invrea, 1850-1917)

Amo il biondo ed il fuoco; amo l'estate 
Più della primavera, 
Le donne indebitate, 
Trenta e quaranta, la rossa e la nera. 

Amo gli acri profumi e la riviera, 
Musset, le schioppettate, 
La birra di Baviera 
E il compagno di Sant'Antonio abate. 

Ed amo te, Francesca, 
Te bionda come la birra tedesca, 
Te infocata che abbruci e che consumi, 

Che a Montecarlo sei, 
Circondata da un nuvolo d'ebrei. 
Spumeggiante nel brago e nei profumi. 

(Da "Tutte le poesie", Cappelli, Bologna 1974)

venerdì 7 febbraio 2014

Il carnevale in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Le poesie sul carnevale dovrebbero essere allegre ma così non è quasi mai: lo stanno a dimostrare queste dieci composizioni in versi di scrittori italiani ottocenteschi. Chi racconta di tradimenti, chi di vecchiaia, chi di delirii; chi ancora narra di abusi perpetrati da uomini di potere nei confronti dei poveri festanti; chi rimpiange tempi in cui la festa era più entusiasmante e viva; chi cammina lungo le strade con la morte nel cuore e chi si accorge che, perfino una maschera allegra e scanzonata all'apparenza, quale è Arlecchino, in realtà è celatamente trafitta dal dolore.





ER CARNOVALE SMASCHERATO
di Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863)

Nonna, a li tempi ch’èrimo frittura 
e jje sfilamio la conocchia e ’r fuso,
se schiaffava una mmaschera, e cco st’uso
sce fasceva stà bboni e avé ppavura.

Me capischi? È ll’età cquella che scuso:
cos’ha da fà una povera cratura
cuanno sta sgangherata prelatura
nun pò vvéde le mmaschere sur muso?

Leva cuer po’ de mmaschere, che rresta
der Carnovale? un torzo lisscesbrisscio, 
un urinale che nnun abbi vesta.

Ma sti cazzacci cqui ppieni de pisscio
ar Papa j’arivòrteno la testa
come fussi una bboccia ar gioco-lisscio.

(Da "I sonetti romaneschi", vol. II, Lapi, Città di Castello 1886)





NOTTE DI CARNEVALE
di Emilio Praga (1839-1875)


É notte: azzurro il ciel, tonda la luna
che disegna sul lastrico i ritratti
dei comignoli; dormono i tranquilli
umani, e i gatti per le note gronde
sospirano d'amor come i poeti
dell'Arcadia; le orchestre nei teatri
fremono melodie, travolgon balli,
e delle donne, come cigni bianche,
dai palchetti la mostra è generosa.
Qui, sulle piazze il carneval sonnecchia,
e tranne il rombo di qualche carretto
che si perde nei vicoli lontani,
tutto è quiete...

Ma un canto ecco s'innalza,
e un uomo, al muro brancicando, arriva.

- Chi è, chi non è?
Oh povero me!...
Il prete lo giura,
ma nulla io ne so:
chi dice di sì, chi dice di no...
Gli è il coro dei matti che Adamo intonò!

Eppure costì
finiscono i dì:
andrem nella luna,
negli astri, o nel sol?
Non so, ma però mi esercito al vol
ché il vino le aluccie prestarmi può sol.

Ma vedi lassù...
Che avvenne, che fu?
Oh domine!... un gatto
che coda non ha!
É un vecchio ; io lo so : la gelida età
con furti siffatti burlando ci va.

Oh gatto gentil...
ti sono simil!
Che mai non perdetti
da quando fioccò
I figli morir, la moglie spirò...
Ma, basta!... io non dico, non dico di no!"

Povero vecchierello! bevi, bevi,
ché il vin ti accende un lumicin di fede!...
Se il confessor così ti sente e vede
d'ora in poi dall'altar ti caccia via,
e ti manda a buscarti i sacramenti
all'osteria.

Ma or rincasa; gelato è il primo albore;
torna, torna ubbriaco al mesto tetto
che orbò la morte d'ogni tuo diletto;
alzerà il vino un lembo al velo bruno,
rivedrai, brancolando, i tuoi parenti,
ad uno ad uno. 
- Chi sei tu? - Non ricordo...- E il domicilio?...
- Sulla terra! - Ma dove ? - É il mio segreto!
E di seguirmi vi faccio divieto;
or sulla terra, e presto sotto terra,
e presto in cielo...me lo ha detto il vino,
 e il vin non erra! -

Vattene a casa... arrivano i monelli,
la tua canizie burlata non sia;
dimmi, tua moglie la era saggia e pia?
Quante volte avrà pianto al tuo ritorno!
Per la memoria sua la brutta scena
non vegga il giorno.

Si terse una lagrima - poi disse: - o signore,
di tenero cuore - la mamma vi fe'!
Ebben, tante grazie - lasciatemi andare,
io voglio ammazzare - la fame con me.

Quei soldi eran gli ultimi - ed or son bevuti;
accetti i saluti - lasciatemi andar.
Quel bruto d'orefice...- sei lire...un anello!..
sì grosso, sì bello...- mi volle rubar.

L'anel della moglie - mio dolce signore.
un dono del core - che più non vedrò!...
Venduti son gli abiti - del povero Tonio..
la larva di un conio - più in tasca non ho.

Sa lei chi era Tonio? - mio figlio! un bel bruno!
Lavoro e digiuno - l'han fatto morir.
Gli ostieri, sa domine? - son tutti testardi...
" Eh vecchio! gli è tardi - bisogna partir ".

Partire! ma...e l'anima? - sù, lei...che ne dice?
Di un vecchio infelice - la morte cos'è?
Ha fatto i suoi studii? - ebben, che ha imparato?
Se Cristo ha burlato - oh povero me! ".

Partì brancolando. Nel ciel porporino
le pallide stelle svanivano già,
e desta al sussurro di un gaio mattino
dal sonno sorgeva la immensa città.

Le mani affilate, la faccia barbuta
del povero vecchio biancheggiano al sol...
Ma il vecchio la luce del dì non saluta,
e brontola: "Intanto mi esercito al vol!".

(Da "Penombre", Casa Editrice degli Autori-Editori, Milano 1864)





CARNEVALE
di Gaetano Leonello Patuzzi (1841-1909)

POETA
   La più ridente maschera
E la più bella vesta,
La festa - ora e la gioia!
   Domani panni laceri,
La maschera usuale,
Il male - e tetra noia!

ARLECCHINO
   Poesia! la tua nenia
Meglio non val del riso
Sul viso - all'Arlecchino.
   A te diletto è il piangere
Il tuo, l'altrui martire
E l'ire - del destino;
   E il mio diletto è il ridere
Di te, di me, di tutto
Il lutto - universale.

POETA
   Sotto la larva ipocrita
Tu sei dal duol trafitto!

ARLECCHINO
Sta zitto! - è Carnevale.

(Da "Bolle di sapone", Roux e Favale, torino 1878)





DI CARNOVALE
di Arturo Graf (1848-1913)

 Così, simile ad uno
 Spirito fulminato,
Quando il giorno si spegne e nell’arcato
 Cielo s’addensa il bruno

 Aere; a capo basso
 Per le piazze, pei trivi,
Ove si mesce il popolo dei vivi,
 Traggo lo stanco passo.

 A me d’attorno ondeggia
 La moltitudin varia;
Di risa e motti un sonito nell’aria
 Vivo e festoso echeggia.

 Intorno a me di mille
 Fiamme un barbaglio acuto,
E gale e pompe e scintillar minute
 Di gemme e di pupille.

 Erompono dagli atri
 Rumoreggiando i cocchi;
Volan le belle a folgorar con gli occhi
 I lucidi teatri.

Traggono i lieti cori
 Alle ritmiche danze,
Sogni intrecciando, voluttà, speranze,
 Desiderii ed amori.

 Pallido, affranto, muto,
 Tra i felici sol io,
Trascino il passo, memore del mio
 Paradiso perduto.

 E alcuno in me rivolto
 Guata e m’accenna altrui,
E dice: Mira; chi sarà costui
 C’ha la morte nel volto?

(Da "Medusa", Loescher, Torino 1880)





GIÀ LE STELLE SI PERDONO...
di Corrado Ricci (1858-1934)

Già le stelle si perdono a l'aurora
che di luce soave il ciel rischiara;
                      io veglio ancora,
io piango ; intanto a le fulgenti sale
pazzamente s'inneggia al carnevale!

Anch'io teco nel vortice travolto
d'allegre danze, ti vorrei furtivo
                      baciare in volto;
nello sguardo vorrei leggerti il core,
rammentarti vorrei tutto il mio amore!

Descriverti le notti insonni, i pianti
sopra i tuoi fiori amaramente sparsi,
                      i mesti canti
ch'io lagrimando sciolsi, i canti miei
pur lagrimando dirteli vorrei!

Ma tu dormi, che più non t'ange il core
la rimembranza dei passati giorni,
                      del nostro amore...
Già il ciel rischiara la tacita aurora
d'una luce soave e io veglio ancora!

(Da "I miei canti", Zanichelli, Bologna 1880)





CARNEVALE ROMANO
di Enrico Panzacchi (1840-1904)

O stanco carneval, gli allegri suoni
tu désti ancora; ancor sugli alti trampoli
urli pe'l Corso; ancor gridi a' balconi:
            «Fuori! giù, giù coriandoli!»

Ma con te la follia scuote i sonagli
torpidamente! In frotte i bimbi accorrono
meravigliati ai languidi barbagli
            de' suoi grandi occhi ceruli.

O stanco carneval, le vecchie istorie
rammenti? Uscivi dal pagan Lupercolo,
tutti intronando delle tue baldorie
            i vichi di Trastevere;

E le figlie dei papi avidamente
sugl'ignudi giudei correnti il palio
pasceano gli occhi; e il volgo penitente
            sentia più forte i pungoli


contenuti del senso. Aspro il divieto,
piantato a guardia d'ogni umano anelito,
addoppiava le fibre, e via più lieto
            erompeva il tripudio.

Passò stagione, o carnevale stanco;
passò stagione! La consuetudine
pigra or ti spinge; e tu tramuti il fianco
            briaco di cantaridi.

(Da "Poesie", Zanichelli, Bologna 1908)





AL BANCHETTO DELL'AMICO COMM. G. BERTOLDI
di Domenico Carbone (1823-1883)

Io sono il gaio spirto del Boccaccio,
Che, tra uomini allegri, onesti e dotti,
Qui scendo, ogni anno, il dì di berlingaccio,
A novellar d' arrosti e d'agnellotti.

Per vezzo antico volentier mi caccio
Dove ride allegria, .tra cibi ghiotti;
E, genio convivale, io scoppiar faccio
Le celie, i frizzi e i ribattuti motti.

Poi quando, ai fumi del Chianti natio,
S'accende il viso e l'occhio brilla, io godo,
Godo del chiasso e del giovial ciarlio.

Così, l'alito mio diffuso intorno,
In più salde amicizie i cori annodo,
E, piacevoleggiando, al ciel ritorno.

L'ultimo di Carnevale in Firenze, li 21 febbraio 1882

(Da "Poesie", Barbera, Firenze 1885)





CARNEVALE
di Giuseppe Deabate (1857-1928)

Un barbaglio di festa e di mercato,
Un delirio di rauche voci urlanti....
— Ultimo avanzo d'un tripudio andato —
Echeggia e splende in mezzo ad assordanti

Inviti e risa che paiono pianti.
— In un angolo un bimbo accovacciato
Guata dai luminosi occhi imploranti....
Passa la folla indifferente a lato;

E in quell'informe pandemonio strano
Di squallide baracche, ove schiamazza
Tutta l'ebbrezza del cervello umano,

Sferrasi e sale l'ultimo fragore....
Il Carnevale, nato dalla piazza,
Sovra la piazza delirando muore.

(Da "Il canzoniere del villaggio", Casanova, Torino 1897)





GIOVEDÌ GRASSO
di Olindo Guerrini (1845-1916)

I.

Quando il giorno apparì, livido, lento,
tra la nebbia del ciel rannuvolato,
l'ultimo lume per le vie fu spento
e l'ultimo cancan fu galoppato.

Le mascherine allor, col sonnolento
passo e col volto dalla veglia enfiato,
luride di sudor, gialle di stento,
usciron barcollando e senza fiato.

Pierrot, disfatto che mettea spavento,
mezzo briaco e mezzo addormentato,
il ritratto parea del pentimento

e Colombina intanto a lui da lato,
balbettando dicea: «Bada... mi sento...»
E con la testa al muro ha vomitato.


II.

Sotto i cenci di seta entrava il vento
che le carni mordea freddo, spietato,
e la lordura che cadea dal mento
colava a fiotti dentro il sen slacciato.

Il povero Pierrot tutto sgomento,
tossendo le chiedea: «Che cosa è stato?»
e guardava sorpreso il pavimento
dalla compagna sua contaminato.

Poi quando quell'orror fu terminato,
la mascherina si frugò un momento
in sen col fazzoletto ricamato:

indi, ripreso un poco il sentimento,
ruppe in un riso stridulo, ammalato
e sparì urlando: «Ah, che divertimento!»

(Da "Le Rime di Lorenzo Stecchetti", Zanichelli, Bologna 1903)





LA FESTA DA BALLO
di Alfredo Oriani (1852-1909)

Poc'oltre mezzanotte in carnevale,
mentre più ferve delle danze l'ora,
scheletro muto salirò le scale
del tuo palazzo per vederti ancora.

Nelle notturne, fiammeggianti sale
rosea passerai come l'aurora,
ma dai cavi miei occhi un freddo strale
ti colpirà nel cor, bella signora.

E ti dirò, non visto cavaliero
fra tanta luce, d'aurei riflessi:
V'è ballo questa notte in cimitero,
danzano i morti in mezzo dei cipressi.

I fidi amanti van sotto le arcate
per l'ombra avvolti in candidi lenzuoli
e tornano a sognar la grande estate,
odor di rose e canti d' usignuoli.

Vieni. La luna solitaria imbianca
di freddo argento il nostro camposanto;
non ti ricordi? Non ti senti stanca
d'esser sola tu che mi amavi tanto?

Non ti ricordi i baci, i giuramenti
e quello sguardo, che mi ardeva il cuore,
quando toccando colle dita aulenti
le mie ferite sospiravi: «Amore,

amore mio, che fu? Perchè ferito
ti sei a morte, amore mio crudele?
Portami teco o solo mio marito,
o solo amante del mio cor fedele.

Portami teco: il cor non s'impaura
se a te la morte nell'amor sorrise;
eternamente dormirò sicura
sopra il tuo cuore, che per me s'uccise».

Ma lungamente nella tomba attesi
la tua promessa, o nobile signora.
Oh! quante volte ai nuovi morti chiesi
s'eri venuta, s'eri bella ancora.

Bella, infedele ad altri cor suggevi
un altro sangue dalle ree ferite;
o mio vampiro dagli artigli brevi,
o bianca donna dalla faccia mite,

vieni a danzar nel muto cimitero,
poiché danzando non fan chiasso i morti;
non ebbe mai più fido cavaliero superba
dama superba di regali corti.

Ballano dentro quel pallor d'argento
gli spettri avvolti in candidi lenzuoli;
vieni, la danza in lungo avvolgimento
ci rapirà con amorosi voli,

finchè del gallo al terzo canto, quando
l'avara luce noi spiriti caccia,
nel mio sepolcro dormirai posando,
o dolce amor, fra le mie scarne braccia.

Né temere per cosa che ti desti
sciorti più mai dal freddo abbracciamento;
le promesse d'amor che mi facesti,
lassù nel mondo, non le sparse il vento.

Se la stanza nuzial non ha lucerna,
né s'apre al sole che nel ciel rimonta,
non ti lagnare qui nell'ombra eterna
son fidi i morti ed è l'amor senz'onta.

Son fidi i morti. Ancor Francesca al vento
della bufera che giammai non resta,
fra pianti fiochi e voci di lamento,
levando al cielo la superba testa,

guarda i beati nell'eterna brama
lungi da Dio girar pel paradiso,
e stretta al collo dell'amante esclama:
«Questi che mai da me non fia diviso!».


(Da "Monotonie", Cappelli, Bologna 1934)