sabato 31 marzo 2012

La Domenica delle Palme in versi

La Domenica delle Palme precede di una settimana la santa Pasqua. In tale giorno i cattolici ricordano l'ingresso di Gesù a Gerusalemme in occasione della sua ultima pasqua; occasione in cui il figlio di Dio fu accolto trionfalmente dalla popolazione, che, mentre lo vedeva passare per le strade in sella ad un asinello, agitava dei rami di palma e di ulivo gridando: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il regno del padre nostro Davide, che viene! Osanna nel più alto dei cieli!» (dal Vangelo secondo Giovanni: 11, 9-10). È ormai conosciuta un po' da tutti l'usanza, o meglio il rito, della benedizione, da parte dei sacerdoti, dei rami di palma e di ulivo, che avviene proprio durante la Domenica delle Palme; dopo la benedizione e la messa i fedeli possono ricevere e portare nelle loro abitazioni i rami suddetti che fungono da simbolo di pace e sono spesso appesi alle pareti delle stanze da letto.
Alcuni poeti italiani, tra la fine dell'Ottocento e la fase iniziale del Novecento, hanno scritto delle poesie dedicate a tale ricorrenza. Ho scelto tre poesie che ben rappresentano l'evento religioso, una volta decisamente più sentito dalla popolazione, che era molto legata alle tradizioni ed alle liturgie cristiane. La prima, di Giovanni Pascoli, è un madrigale che fa parte della raccolta "Myricae" e nasce da un proverbio popolare: «La domenica dell'ulivo ogni uccello fa il suo nido»; da qui la descrizione che ne scaturisce, di uccelli che, proprio durante la Domenica delle Palme, si industriano nel costruire i loro nidi fatti di foglie secche, radiche e fuscelli.
La seconda poesia è di Marino Moretti, appartiene al volume "Poesie scritte col lapis" e trae spunto dal tradizionale ramoscello d'ulivo, portato in casa dalla madre del poeta, per sviluppare la sua visione grigia (come il colore delle foglie d'ulivo) e malinconica dell'esistenza, pienamente conforme al crepuscolarismo, di cui il Moretti fu un importante esponente.
L'ultima poesia è di Pietro Mastri ed è inclusa nella raccolta "La via delle stelle". In questi versi il poeta, già anziano, sembra instaurare un colloquio esortativo con sè stesso, incoraggiandosi ad andare in chiesa nel giorno in cui si distribuiscono i rami benedetti, e di portarne a casa alcuni per i suoi famigliari più stretti (la moglie e il figlio), continuando così la consuetudine cristiana imparata dai suoi genitori.
 


LA DOMENICA DELL'ULIVO
di Giovanni Pascoli

Hanno compiuto in questo dì gli uccelli
il nido (oggi è la festa dell'ulivo)
di foglie secche, radiche, fuscelli;

quel sul cipresso, questo su l'alloro,
al bosco, lungo il chioccolo d'un rivo,
nell'ombra mossa d'un tremolìo d'oro.

E covano sul musco e sul lichene
fissando muti il cielo cristallino,
con improvvisi palpiti, se viene
un ronzio d'ape, un vol di maggiolino.

 



LA DOMENICA DELLE PALME
di Marino Moretti

Chinar la testa che vale?
E che val nova fermezza?
Io sento in me la stanchezza
del giorno domenicale,

mentre la madre mia buona
entra con passo furtivo
nella mia stanza e mi dona
un ramoscello d'ulivo...

E se'n va. Tutto quello
ch'ella vuol dirmi lo dice
a questo suo ramoscello
che adornerà una cornice:

adornerà la cornice
dorata a capo del letto
l'ulivo ch'è benedetto,
l'ulivo che benedice;

porterà pace e abbondanza
nelle casette più sole,
rallegrerà un po' la stanza
dell'infermo, senza sole,

ricorderà poi con tanta
fede l'ingresso solenne
di Cristo a Gerusalemme
nella domenica santa!...

Ulivo, e a me che dirai?
Le stesse cose anche tu?
se una parola: giammai,
se due parole: mai più?

Nulla tu doni al mio cuore
che lo consoli un istante,
ed il mio sguardo tremante
non vede in te che un colore:

il color triste di tutto
il mondo che non à sole
e piange tacito e vuole
vestirsi di mezzo lutto;

il colore della noia
e dei fior di bugia,
il colore della mia
giovinezza senza gioia;

il colore del passato
che ritorna ben vestito,
il color dell'infinito
e di ciò che non è stato;

il color triste dell'ore
così lente a venir giù
dai lor numeri, il colore
che non è colore più!
 
 
 
L'OLIVO BENEDETTO
di Pietro Mastri

Lo sai, che su tutti gli altari,
oggi benedicon l'olivo?...
Domenica dell'olivo:
domenica di pace!
Andiamo, vecchio: entriamo.
La chiesa è pe' tuoi pari;
che lì, se non altro, si tace...
Chiedine un piccolo ramo,
di quell'olivo di pace:
portalo a casa con te.
È ancora umido e vivo
come una fronda novella;
pieghevole come un giunco;
fresco così che le foglie
odorano a troncarle;
odorano più che alle nari,
d'amarognolo, al palato,
come l'olio appena torchiato.
Chi sa da quale adunco
pennato fu còlto stamani!
Chi sa da quali mani,
leggère alle cose leggère
e alle pesanti dure,
fu posto in quel paniere
medesimo, dove si bruca
la nera bacca!... Era di primo giorno
forse; e perciò, vedi?, conserva ancora
su di sé quel pallore
d'alba - allorché la luna mattutina
vanisce nel cielo di perla
come una festuca
incenerita, e ogni stella
si spegne in un pianto di brina...

Portalo teco, sul cuore;
portalo con sereno ciglio.
Danne una ciocca a tua moglie
e una ciocca a tuo figlio.

Fa come un tempo la madre
tua, benedetta!, faceva con te.

domenica 25 marzo 2012

Incipit di "Sostiene Pereira" (in ricordo di Antonio Tabucchi)

Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d'estate. Una magnifica giornata d'estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava. Pare che Pereira stesse in redazione, non sapeva che fare, il direttore era in ferie, lui si trovava nell'imbarazzo di mettere su la pagina culturale, perché il "Lisboa" aveva ormai una pagina culturale, e l'avevano affidata a lui. E lui, Pereira, rifletteva sulla morte. Quel bel giorno d'estate, con la brezza atlantica che accarezzava le cime degli alberi e il sole che splendeva, e con una città che scintillava, letteralmente scintillava sotto la sua finestra, e un azzurro, un azzurro mai visto, sostiene Pereira, di un nitore che quasi feriva gli occhi, lui si mise a pensare alla morte. Perché? Questo a Pereira non è possibile dirlo.

(Da "Sostiene Pereira" di Antonio Tabucchi, Feltrinelli, Milano 1995, p. 7)

Notturno

Un suono indistinto ha echeggiato,
e m'ha d'improvviso destato:

rintocco di qualche campana
lontana lontana lontana,
pispiglio di topo fugace,
stridìo di tignuola vorace,
o pianto di bimbo malato
in van dalla madre cullato?
Guaìto di cane errabondo,
canto a stesa di vagabondo,
furtivo richiamo d'amante,
o rantolo d'agonizzante?

Un suono indistinto ha echeggiato,
e m'ha d'improvviso destato.



"Notturno" è una poesia di Mario Venditti (1889-1964), scrittore partenopeo oggi praticamente ignorato che ebbe discreta fama verso la fine della seconda decade del XX secolo, quando fu collaboratore di riviste letterarie valide come "La Diana" e pubblicò alcune raccolte poetiche come "Il terzetto" (1911), da cui è tratta questa poesia, e "Il cuore al trapezio" (1921). "Notturno" risente molto della poetica di Giovanni Pascoli; lo si nota facilmente se si legge, del poeta emiliano, la sezione "Misteri" di "Myricae". Venditti vuole qui accentuare il carattere enigmatico del "suono indistinto" che lo ha destato dal sonno per giungere ad una considerazione: la vita è piena di episodi misteriosi che percepiamo, ma che mai saremo in grado di spiegare.

sabato 24 marzo 2012

Da "Canne al vento" di Grazia Deledda

Tutto era mutato; il mondo si allargava come la valle dopo l’uragano quando la nebbia sale su e scompare: il Castello sul cielo azzurro, le rovine su cui l’erba tremava piena di perle, la pianura laggiù con le macchie rugginose dei giuncheti, tutto aveva una dolcezza di ricordi infantili, di cose perdute da lungo tempo, da lungo tempo piante e desiderate e poi dimenticate e poi finalmente ritrovate quando non si ricordano e non si rimpiangono più.
Tutto è dolce, buono, caro: ecco i rovi della Basilica, circondati dai fili dei ragni verdi e violetti di rugiada, ecco la muraglia grigia, il portone corroso, l’antico cimitero coi fiori bianchi delle ossa in mezzo all’avena e alle ortiche, ecco il viottolo e la siepe con le farfalline lilla e le coccinelle rosse che sembrano fiorellini e bacche: tutto è fresco, innocente e bello come quando siamo bambini e siamo scappati di casa a correre per il mondo meraviglioso.

(Da "Canne al vento" di Grazia Deledda, Newton Compton, Roma 1993, p. 130)

venerdì 23 marzo 2012

Poeti dimenticati: Giacinto Ricci Signorini

Gualtiero Giacinto Silvio Ricci Signorini nacque a Massalombarda nel 1861 e morì a Cesena nel 1893. Figlio di un medico, studiò Lettere all'università di Bologna, dove divenne allievo del Carducci. Dopo la laurea professò l'insegnamento a Campobasso, a Catanzaro e quindi a Cesena, dove visse fino al giorno del suicidio, che pose fine ad una vita inquieta e insoddisfatta, di un uomo che cercò invano la gloria. La sua opera poetica, in parte pubblicata mentre era in vita, in parte recuperata in un volume postumo da Luigi Donati, ha spesso toni drammatici, che dimostrano la profonda infelicità del poeta romagnolo; non frequente, ma apprezzabile, è la parte dei versi dedicati alla sua amata Romagna, evocata nella sua vita agreste.
 
 
 
Opere poetiche
"Rime", Vignuzzi, Cesena 1888.
"Il libro delle rime", Vignuzzi, Cesena 1890.
"Romagna", Zanichelli, Bologna 1891.
"Thanatos", Società Coop. per l'arte tipogr., Cesena 1892.
"Elegie di Romagna", Società Coop. per l'arte tipogr., Cesena 1893.
"Poesie e prose", Zanichelli, Bologna 1903.
"Poesie e prose scelte", Galeati, Imola 1966.
 
 
 
Presenze in antologie
"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 346-351).
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (volume terzo, pp. 371-377).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 667-673).
"Parnaso italiano. Poesia dell'Ottocento", a cura di Carlo Muscetta ed Elsa Sormani, Einaudi, Torino 1968 (vol. II, pp. 2114-2123).
 
 
 
Testi

Rugge nel petto mio l'odio, s'annida
Nel mio cervello un pensiero tenace
Che mi tortura e non mi lascia in pace,
E spero ben che un urlo deh m'uccida.

Passai, deserto, e nella lunga via
Non un fiore spuntò per rallegrarmi;
Passai gettando nei miei dolci carmi
La speme i sogni la malinconia.

Ma son già stanco, nell'anima mia
Sta lo sconforto triste, a lusingarmi
Vien sol la morte da i vegliati marmi;
Né mi sostiene una fanciulla pia.

(Da "Poesie e prose scelte")



giovedì 22 marzo 2012

Gli animali nella poesia italiana decadente e simbolista

La simbologia degli animali, molto diffusa tra i poeti simbolisti, varia a seconda del tipo di bestia menzionato. Per fare alcuni brevi esempi possiamo dire che il cane è simbolo di fedeltà e giustizia, il gatto di femminilità e fertilità, la chiocciola di saggezza e di intelligenza, il corvo di sfortuna e di morte, gufi e civette si associano a comprensione e luce mentre il gallo simboleggia la rinascita; gli agnelli hanno a che vedere con l'innocenza e il sacrificio; le formiche sono collegate all'amicizia, le rondini sia alla partenza che al ritorno ed i ragni hanno una simbologia molto ricca e diversificata, tanto da meritare un discorso a parte. I poeti decadenti e simbolisti nei loro versi predilessero alcuni tipi di animali: tra i più citati vi sono in generale gli uccelli e in particolare le rondini, i corvi e le civette.
 


Poesie sull'argomento
Diego Angeli: "Una rondine" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).
Antonio Beltramelli: "Nei giorni lontani..." in "I Canti di Faunus" (1908).
Enrico Cavacchioli: "Le procellarie" in "L'Incubo Velato" (1906).
Enrico Cavacchioli: "Il girino scettico in amore" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Il Chiù" in "Le consolatrici" (1905).
Sergio Corazzini: "L'agnello" in «Capitan Fracassa», dicembre 1902.
Sergio Corazzini: "Il gatto e la luna" in «Marforio», ottobre 1904.
Federico De Maria: "Le Colombe", "Gli Agnelli" e "La Canzone dell'Usignolo" in "Voci" (1903).
Federico De Maria: "I Tarpan" in "La Leggenda della Vita" (1909).
Alessandro Giribaldi: "Le mosche" e "Le formiche" in "Canti del prigioniero e altre liriche" (1940).
Corrado Govoni: "Passero solitario" e "I paoni" in "Le Fiale" (1903).
Corrado Govoni: "Le litanie del mao" in "Fuochi d'artifizio" (1905).
Corrado Govoni: "La chiocciola", "Le farfalle", "Le api" e "Ai corvi" in "Gli aborti" (1907).
Corrado Govoni: "Gli aironi" e "L'usignuolo" in "Poesie elettriche" (1911).
Guido Gozzano: "L'amico delle crisalidi" in "La Riviera Ligure", Agosto 1909.
Guido Gozzano: "Le farfalle" in "Poesie e prose (1961).
Arturo Graf: "Corvo" in "Medusa" (1880).
Amalia Guglielminetti: "L'etéra" in "Le Seduzioni" (1909).
Gian Pietro Lucini: "Mitico serpe candido e rosato" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).
Gian Pietro Lucini: "Rondini" in "Poesia", agosto/settembre/ottobre 1909.
Mario Malfettani: "I gufi" in "Fiori vermigli" (1906).
Tito Marrone: "Gli usignoli" e "Il gatto" in "Liriche" (1904).
Fausto Maria Martini: "Le colombe" in "Le piccole morte" (1906).
Fausto Maria Martini: "La lucciola e il serpente" in "Panem nostrum" (1907).
Fausto Maria Martini, "Le rondini" in «Noi e il Mondo», maggio 1914.
Pietro Mastri: "L'usignuolo", "Il giumento bendato" e "Il cuculio" in "Lo specchio e la falce" (1907).
Pietro Mastri: "L'ultima cicala" e "Le pecorelle" in "La fronda oscillante" (1923).
Marino Moretti: "La domenica dell'orso" in "Poesie scritte col lapis" (1910).
Angiolo Orvieto: "L'alcione" e "Rondini" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Giovanni Pascoli: "La civetta" e "Il passero solitario" in "Myricae" (1900).
Giovanni Pascoli: "Il cane notturno" in "Odi e Inni" (1906).
Guido Ruberti: "Volo di corvi" e "La mandra" in "Le fiaccole" (1905).
Fausto Salvatori: "La Rana" in "La Terra promessa" (1907).
Emanuele Sella: "I cani" in "Rudimentum" (1911).
Domenico Tumiati: "L'airone" in "Liriche" (1937).
Aurelio Ugolini: "Il pappagallo" in "Viburna" (1905).
Diego Valeri: "Rondini" in "Crisalide" (1919).
Giuseppe Zucca: "Le civette" in "Io" (1921).
 

 
Testi
I TARPAN
di Federico De Maria

L'ardor della caucasëa pianura
in estate li inebbria come fieno
che fermenti, spandendo a l'aria pura
un suo veleno

Lussurioso; una frenata e pazza
sete di spazî prende allor l'armento
dei poledri che, libero, scorazza
emulo al vento.

Allor, d'un tratto, come ad un comando
improvviso, si slancia la grande schiera
serrata a corsa folle, svolazzando
ogni criniera

Sovra i mobili dorsi: e tutte sono
simili a scapigliata selva a volo.
Sotto il galoppo con fragor di tuono
rimbomba il suolo.

Forse ànno visto a l'orizzonte. Al lume
del tramonto, il profilo di più calme
e fresche plaghe: un lago d'oro, piume
verdi di palme,

Frescure ombrose, pascoli fioriti,
tutta una meraviglia non mai vista
nella lor steppa ignuda: e son partiti
a la conquista.

Sono partiti, e il loro calpestìo
frenetico schizzar fa sterpi, fanga
e ciottoli: rovescian da un pendìo
come valanga,

S'arrampicano coi garetti elastici
pei clivi scabri, con balzi magnifici
i borri e i fossi varcano, fantastici
come ippogrifi,

Protesi gli occhi al miraggio: Sfavilla
la viva roccia talora a l'attrito
de l'ugna, e tra l'ansimar spesso squilla
qualche nitrito.

Ma quando l'ombra, come una palude
aerea lenta cielo e steppe invade
da occidente, ed ai lor occhi chiude
tutte le strade,

S'arrestan essi (e sotto la lor pelle
fumante i tesi muscoli ancor vibrano):
un'aurea nube tra le prime stelle
sola si libra

Su l'orizzonte dove sfolgorare
videro il portentoso paesaggio:
la notte ferma su l'erboso mare
il lor viaggio.

Ma non importa: bella fu la corsa!
Essi lungo rammarico non sanno.
Stanotte sotto il pio raggio dell'orsa
riposeranno,

E se domani splenderà nel cielo
ancor la visione che fu tolta
loro da l'ombra, qual turbine anelo
un'altra volta

andranno. Andranno: essi giocan con quella
visïone che correre li fa.
È loro gioia sol la corsa bella
in libertà.

(Da "La Leggenda della Vita")
 
 

mercoledì 21 marzo 2012

Spariranno anche le rondini

Cantavano bensì gli andati
uomini del mio borgo.
Ed era il tempo dei galli e dei cavalli
e di altro che non è
o non sarà tra un breve
volgere di anni mai più
su questa terra. Un riccio
più non lo vedi che raro tra le siepi
ultime, e il cùculo
sempre più lungi il suo canto riporta
addentro i boschi morenti, e verrà
tempo che in cielo non saranno più le rondini
del buon Francesco.
                            Così
il cuore ancora si diceva l'altra notte
seguendo il mesto tramontare della luna
laddove il canto popolano più non era.
 
 
 
Esiste un detto popolare che recita così: «A San Benedetto una rondine sotto il tetto»; ebbene San Benedetto è proprio oggi, ventuno di marzo, e di rondini sotto i tetti non se ne vedono, così come non se ne vedevano un anno fa. Ho sentito una recente notizia che affermava la significativa diminuzione del numero di rondini che, ogni anno, all'arrivo della stagione primaverile, tornano a popolare i nostri cieli. Ecco quindi dimostrato che il grande poeta Umberto Bellintani, quando, nei lontani anni sessanta scrisse questa poesia, aveva ragione. Il suo presentimento era avallato dai sostanziali, graduali cambiamenti del paesaggio a cui aveva assistito lungo gli anni dell'industrializzazione. La conseguenza di questi mutamenti fu ed è un aumento di sostanze inquinanti presenti sia nell'aria che nella terra, e una netta diminuzione degli spazi vitali per la flora e la fauna che occupavano a ragione il territorio e che nessuno considera. Se, magari non oggi, ma fra un po' di giorni, vedremo ancora delle rondini nel cielo, dobbiamo essere consapevoli che non sarà ancora per molto, perché presto spariranno, così come non ci saranno più tante altre cose belle che potevano allietare la nostra vista e la nostra vita, a vantaggio di un bieco consumismo e di un vuoto materialismo che detta legge e non rispetta la vita degli abitanti del pianeta.
"Spariranno anche le rondini" fu pubblicata dal poeta lombardo Umberto Bellintani nella raccolta "E tu che m'ascolti", uscita nel 1963. La si trova anche nel volume intitolato "Nella grande pianura" del 1998, che comprende la maggior parte dei versi di Bellintani.