domenica 22 gennaio 2012

Da "Bruges la morta" di Georges Rodenbach


Ah! quella Bruges d'inverno, la sera!
L'influsso della città su di lui riprendeva: lezione di silenzio che gli veniva dai canali immobili, che con la loro calma meritavano di essere frequentati dai nobili cigni; esempio di rassegnazione offerto dai quais taciturni; soprattutto esortazioni di pietà e di austerità che cadevano dagli alti campanili di Notre-Dame e di San Salvatore, sempre emergenti dal fondo delle prospettive.







Breve, perfetto frammento che ho tratto dal X capitolo di Bruges la morta: romanzo più famoso del poeta belga Georges Rodenbach. In poche parole viene magistralmente descritta una città straordinaria come Bruges nella stagione invernale. Poche parole bastano, a Rodenbach, per trasmettere al lettore tutta la bellezza di questo luogo, e le atmosfere misticheggianti che si respirano sulle strade della città belga: unica al mondo per determinate caratteristiche. Il frammento che si legge qui, fa parte del libro pubblicato dalla Rizzoli di Milano nel 1955 (pp. 63-64).


Da "Martin Eden" di Jack London

Improvvisamente si accorse di quanto fosse disperata la sua situazione. Con occhi limpidi vide che era entrato nella Valle delle Ombre. Tutta la vita che ancora gli restava svaniva, si dileguava, lo avviava verso la morte. S'accorse di quanto a lungo dormisse ormai, del bisogno che aveva di dormire. Una volta odiava il sonno, perché lo derubava di preziosi momenti, in cui avrebbe potuto vivere. Dormire quattro ore su ventiquattro voleva dire essere derubato di quattro ore di vita. Com'era rammaricato per quel sonno! Adesso invece era la vita che non gli andava più. La vita non era più buona, e gli lasciava in bocca un gusto amaro. Ecco il suo pericolo. La vita che non tendeva verso la vita era sul punto di estinguersi.

(Jack London - Martin Eden, Einaudi 1977, pp. 389-390)

Dallo "Zibaldone" di Giacomo Leopardi

"Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente, ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.
Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagion dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in stato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce miele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e bruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è róso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co' tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro".

(Bologna, 19 aprile 1826)

lunedì 16 gennaio 2012

Poesia

La poesia è qualcosa di eccezionalmente grande ed inarrivabile perchè in grado di suscitare emozioni ed immagini con la sola forza della parola scritta. Grazie alla poesia è possibile sentirsi in sintonia con persone vissute anche parecchi secoli prima di noi, scoprirsi in perfetta simbiosi coi loro pensieri, i loro sentimenti e la loro spiritualità. Esiste però una piccola imperfezione, anche in questa stupenda forma d'arte, ed è la lingua: per capire la straordinaria bellezza di una poesia non scritta nella nostra lingua, occorre una buona (o meglio ottima) traduzione e la cosa non è affatto trascurabile poichè a mio avviso chi traduce una poesia deve essere a sua volta un bravo poeta. Ecco, infine, una poesia che ho scritto rivolgendomi alla Poesia come se fosse un essere vivente, o, forse, un dio invisibile ma ben presente.
 
 
Poesia
sii l'anima mia
sii la vita
e l'armonia.
Rimani
insieme a me
per il resto
dei miei poveri
anni.
Non mi abbandonare
non rendere inutile
questa poca
miserevole
stanca
esistenza.
Ti prego
non andare
via.
Rimani
e fammi
compagnia.

 
 
 

venerdì 13 gennaio 2012

Simbolo

Nel senso attribuito dalla poesia (e dal simbolismo in particolare), la parola non si pone soltanto come equivalente di «segno», come un termine che indica un'altra realtà, ma diviene oscura e misteriosa interpretazione di una realtà assoluta e remota. Nell'allegoria il simbolo era la cosa significata nel suo valore letterale, che naturalmente rinviava a un significato allegorico; ma i termini rimanevano intatti, perché si trattava di un rapporto intellettualistico ed esteriore, mentre per le recenti correnti poetiche il simbolo istituisce rapporti essenziali fra le cose e fra queste e l'Assoluto. Tutte le cose contingenti, anche le minime, sono simboli che conducono l'uomo a comprendere un'Idea, sostiene Baudelaire, e aggiunge: «Tutto è geroglifico e noi sappiamo che i simboli sono oscuri soltanto in senso relativo, in proporzione, cioè, alla purezza, alla buona volontà e alla perspicacia nativa delle anime. Che cos'è ora un poeta... se non un traduttore, un decifratore?». Per i simbolisti la poesia è tutta un simbolo, una «magia evocatrice».

(Dal "Dizionarietto" presente all'interno del volume curato da Giorgio Barberi Squarotti e Stefano Jacomuzzi: "La poesia italiana contemporanea dal Carducci ai giorni nostri", D'Anna, Messina-Firenze 1963)

martedì 3 gennaio 2012

L'abito nella poesia italiana decadente e simbolista

L'abito, soprattutto quello femminile, assume spesso una valenza fortemente simbolica in alcune poesie italiane scritte e pubblicate tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Fondamentale in tal senso è il colore del vestito o del capo d'abbigliamento che, a seconda delle tonalità, può indicare candore (bianco), mistero (nero), passione (rosso), carnalità (rosa), tristezza (grigio, lilla ed altri colori spenti) e così via. Altrettanto centrale è l'erotismo che in molti casi scaturisce da un semplice indumento indossato dalla donna e che può essere un copricapo con veletta, una sciarpa o un abito decoltè.
 

Poesie sull'argomento
Giovanni Camerana: "Il velo nero" in "Poesie" (1968).
Guelfo Civinini: "L'abito viola" in "L'urna" (1900).
Federico De Maria: "Guardaroba" in "Poesia", novembre 1908.
Francesco Gaeta: "Quando è piovuto su l'estate afosa" in "Soneti voluttuosi e altre poesie" (1906).
Corrado Govoni "Le sete" in "Gli aborti" (1907).
Arturo Graf: "La feluca" in "Dopo il tramonto" (1893).
Fausto Maria Martini: "Elegia del primo abito decoltè" in "Tutte le poesie" (1969).
Marino Moretti: "Strascico" in "Poesie di tutti i giorni" (1911).
Solone Muti: "Vieux chiffon" in «La Settimana», giugno 1902.
Aldo Palazzeschi: "Il manto" in "I cavalli bianchi" (1905).
Aldo Palazzeschi: "Frate Rosso" in "Poemi" (1909).
Enrico Panzacchi: "Una sera a Venezia" in "Poesie" (1908).
Romolo Quaglino: "Le etere strette in vesti di broccato" in "I Modi. Anime e simboli" (1896).
Salvatore Quasimodo: "Cilicio" in "Notturni del re silenzioso" (1989).
Fausto Salvatori: "Fasciata dalla tua veste..." in "In ombra d'amore (1929).
Domenico Tumiati: "Rosea veste" in "Musica antica per chitarra" (1897).
 

Testi
QUANDO E' PIOVUTO...

Quando è piovuto su l'estate afosa
e, a spopolar le notti di falene,
vento nevato da le alture viene,
tu t'avviluppi d'uno sciallo rosa.

Come più caldo allor, mia freddolosa,
penso e di forme più fragranti e piene
il nido de 'l tuo petto, ove sì bene
morrei, dove a svernare Amor si posa!

T'affacci a sera, e tra i dormenti fiori
(t'arde a l'orecchia il lume un diamante)
fingon frugar le inanellate mani:

dentro, odo un suon di cembalo; e di fuori,
morendo da 'l piacer d'esserti amante,
te che susurri a 'l mio balcon: «Domani...»

(Da "Sonetti voluttuosi e altre poesie" di Francesco Gaeta) 
 

sabato 31 dicembre 2011

Fola

In una notte di luna nuova, sulla torre alta alta del castello antico, comparve una donna di nero vestita, il suo viso era orribile, bianco, di cera; qualcuno la vide e, terrorizzato, immediatamente urlò, ma la donna subitamente scomparve; l'unico testimone raccontò a tutti della sua spaventosa visione ma non fu creduto, così, dopo venti lunghi anni di pazzia, morì disperato. L'alba del giorno dopo c'era una nebbia fitta fitta. Improvvisamente, sulla torre del castello antico la bruma scomparve e la figura dal volto cereo riapparì; chi la vide non ne parlò con alcuno.



Fin da quando ero bambino mi hanno sempre affascinato i castelli e tutto ciò che orbitava in torno a queste fortezze medioevali, come i cavalieri, le loro armature, le loro sfide e, soprattutto, i fantasmi che di notte si aggiravano – secondo le molteplici leggende – all’interno delle stanze dei castelli. Proprio dalla lettura di alcuni di questi terribili e fantasiosi racconti, nacque la prosa poetica intitolata Fola. L’ho pensata in una sera estiva, guardando da fuori il Castello di Giulio II, che è poi il castello di Ostia Antica, ovvero del borgo dove ho sempre vissuto.