L'ALLODOLA E LA LUNA
di Vittorio Bodini (1914-1970)
L'allodola e la luna sole nel cielo:
lei sorta appena e il passero spaurito
dal pino nero e i silenziosi spari
dei finti cacciatori in mezzo al grano nascente.
Nessuno l'attendeva. Nessuno attende.
Volava di traverso con tutto il cielo in gola.
Sotto di lei crollavano i papaveri,
un'ombra cancellava coi grossi pollici
il dolce vino e il viola del tramonto.
In una stanza in fondo, la memoria,
lasciata ai suoi più torbidi solitari,
di te non s'informava, fine d'un grande giorno:
giorno da meditare
davanti a una finestra, col silenzio alle spalle.
(Da "Tutte le poesie", BESA Editrice, Lecce 1997)
LA COCCINELLA
di Giuseppe Gerini (1895-?)
Il nostro oliveto, il nostro vigneto
d'aprile!
Palpito d'argento
tenerezza di verde
a specchio del cielo, pupilla serena.
Un prato riposa tra loro
lieto di sue margherite.
Coglie coglie la sorellina
alla bambola
corone di sposa.
O grembiulino rosa
o nimbo di riccioli d'oro
come tutta fai gioia!
Sulla trama della tua mano,
carezza che al sole traluce,
la coccinella conduce
strade d'incertezza.
La segui - azzurra innocenza degli occhi! -
l'esorti: «Mariola, mariola
prendi il libro, va' a scuola».
Lassù, dal vertice aereo dell'indice,
un fievole fievole brivido d'ale:
è sparita.
Dove? Sparita.
Così come tu, sorellina, sparisti,
per entro quel palpito dell'uliveto
oltre quel tenero verde,
là dove tutto si perde.
Dei tuoi riccioli tanti
alla mamma rimase una ciocca
spasimo della sua bocca,
e un grembiulino rosa
per i suoi lunghi pianti.
(Da "Termini. Collezione di poesia", Fiume 1938)
AL PIPISTRELLO
di Marino Marin (1860-1951)
O pipistrello, che nei vespri grigi
d'estate solitario esci, com'esco
anch'io, che vai su e giù, prendendo il fresco,
come anch'io vado, al canto delle strigi:
m'odi, fratello in Dio: - Se san Francesco
fosse uso offrirti all'imbrunir, quand'era
intorno a lui tutto estasi e preghiera,
le briciole cadute dal suo desco,
non so, ma questo io so: che, se la schiera
posta a vegliar la pergola infernale
ebbe da te lo stampo alle grandi ale
che spazian vaste su la bolgia nera,
non sei perciò men buono e non fai male
all'insettuccio, nel funereo volo,
più che non gliene faccia l'usignolo,
ch'empie di sé l'effusa pace astrale.
Eppur solingo vai radendo il suolo,
come un reietto; onde, se un uom fu tanto
pio ch'abbia un dì potuto amarti - oh il Santo! -
quell'uom non poteva esser che lui solo:
quel ch'ebbe nella dolce anima il canto
degli uccelletti... Gli uccelletti buoni
le stavano ad udir, ché i suoi sermoni
sapean d'acetosella e d'amaranto.
Dagli alberi scendean, dai cornicioni
a udire il Santo dalle guance cave...
Tu li guardavi, pendulo da un trave,
tra i ragnateli, cupo, e i calabroni.
Tenevi su quel pio, ch'ebbe la chiave
di tutti i cuori, poverel d'Assisi
senza dubbio anche tu gli occhietti fisi,
sebbene in uggia al vago stuol soave.
Fissavi gli occhi tuoi senza sorrisi
nei suoi, che due finestre spalancate
eran da Dio sui campi e le borgate
ad esaltar Gesù: due paradisi.
Stavi, quand'eran lunghe le giornate,
l'ali afflosciate a un trave: eri il reietto...
Solo nei gialli occasi, erto sul petto,
le aprivi al vento come vele issate.
Forse pregavi: - Deh fratel diletto,
perché non mi vuoi tu, dappoi che anch'io
sono una creatura del buon Dio,
con gli altri cari uccelli al tuo banchetto? -
- Ciò che mi chiedi - avrà risposto il pio -
volentieri farei, se tu non fossi
tal che le cingallegre e i pettirossi
n'avrebber gran corruccio, o fratel mio.
Ma queste membranucce, che tu indossi,
te le ha pur fatte Iddio. Dunque t'accosta:
siimi tu commensal, mentre, a lor posta,
pìano essi tra le frasche in riva ai fossi.
C'è un'animuccia buona, in te riposta,
che vuolsi amare: un'animuccia ch'amo.
Fammiti innanzi: non temere. Abbiamo
anche per te, se hai fame, un po' di crosta.
Se così fosse, fosti allor men gramo
ch'or tu non sia, sotto la volta immensa;
ché un uomo a te pensò, come Dio pensa
al verme in terra e all'augellin sul ramo.
Ora egli siede alla celeste mensa
con frate Egidio e fra' Ginepro; e invano
tu attendi un altro santo, un francescano,
che t'apra il cuor, che t'apra la dispensa.
Forse egli vede dal suo ciel lontano
che vai sovente a ricercarlo in chiesa,
ma più non può salvarti, e gliene pesa,
dalla granata del suo sagrestano...
Talor mi sento anch'io sfiorar la tesa
del cappello... Sei tu: t'avventi sciocco:
io penso a un piccol nero Libicocco
appena uscito dalla pece accesa.
Passi, ed io scatto, trasalendo al tocco
delle tue fredde ali ventanti, in piedi:
- Scatti! Perché? - tu sembri dir - Non vedi?
Chiedo la tua pietà ma non la scrocco. -
Lo so, lo vedo: dalle fosche sedi,
no, tu non vieni, ma il Signor t'ha fatto
tuttavia tal che, se mi tocchi, io scatto,
senza volerlo, trasalendo, in piedi.
No, tu non vieni dal penace anfratto,
ma rechi in te la nemesi fatale:
tu pur mi sei fratello in Dio, tal quale
m'è l'usignol, ma... schivo il tuo contatto.
(Da "Sprazzi di luce", Scarpa e Gambaro, Adria 1930)
IL PIANTO DEI GRILLI
di Marino Moretti (1885-1979)
Su la campagna è scesa l'azzurra sera e in cielo
la luna esce da un velo di nuvolette, accesa.
Tutto tace, soltanto s'ode a tratti nel vento
un'eco di lamento, una voce di pianto.
E come, come insiste sotto la dolce luna
quella voce importuna che è sempre tanto triste;
quell'eco solitaria che viene di lontano
e confina il suo vano accento ai soffi d'aria.
Non sono forse i grilli che ripetono in coro,
cantilenando, i loro malinconici strilli?
e non cercano invano nel campo che fu loro,
ed oggi è spoglio, i loro nidietti fra il grano?
(Da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1966)
FRAMMENTO DELLA MARTORA
di Giorgio Orelli (1921-2013)
...
A quest'ora la martora chi sa
dove fugge con la sua gola d'arancia.
Tra i lampi forse s'arrampica, sta
col muso aguzzo in giù sul pino e spia,
mentre riscoppia la fucileria.
(Da "L'ora del tempo", Mondadori, Milano 1962)
LA VASCA DELLE ANGUILLE
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)
La vasca è assai grande
e l'acqua v'è fonda quattr'uomini almeno.
Si dice: «vi sono le anguille».
Sta intorno nel giorno la gente a pescare alla canna.
«Son grosse le anguille,
più grosse d'un bimbo fasciato» si dice.
Sta intorno nel giorno la gente a pescare alla canna.
«Son buone le anguille,
più buone del pane e del miele» si dice.
Sta intorno nel giorno la gente a pescare alla canna.
(Da "Poesie", Preda, Milano 1930)
VIVI CON ME, NON ANDARTENE...
di Michele Pierri (1899-1989)
Vivi con me, non andartene, dice
con l'occhio obliquo la gazza. È Chico
e va beccando a sé il legaccio d'una
mia scarpa. Ho l'anima ammalata, apre
l'uscio a visioni chiare,
troppo chiare, la vecchiaia. Insiste
il becco più sù al malleolo, gioco
e guerra. La pena meglio del niente,
ho ancora da tentare
un'ultima viltà se m'incoraggio
a bere e poi patteggio
le cose che speravo.
(Da "Chico ed io", Lacaita, Manduria 1984)
IL LUPO
di Domenico Rea (1921-1994)
Il lupo minacciò dall'infanzia
da questi monti a mantello
sulla valle di Nofi.
Minacciò mia madre
che andava portando figli
nella borsa a fisarmonica.
E una volta balzò dalla valigia
al posto del neonato.
Tutte le donne gridarono
e i mandriani estrassero i coltelli.
La puerpera solo disse parole
di dolce lamento al lupo,
che piegò la fronte
e inalberò la coda della pace.
(Da "Nubi", Società editrice napoletana, Napoli 1976)
MORTE DELL'AQUILA
di Cesarina Rossi (1887-1962)
Quando l'aquila oltrepassa
I nevai immacolati
Altro etere essa cerca
Per le ali dispiegate
Ed un sole più vicino
In un cielo di cristallo
Per accendere la vampa
Dei suoi occhi foschi e tristi.
Poi si leva a respirare
Un torrente di scintille.
Sempre più, sempre più alto
Gonfia il volo calmo e fiero
Sale verso l'uragano
Dove il lampo la trascina.
Ma la folgore d'un guizzo
Stronca, spezza le sue ali.
Con un lugubre lamento
Essa turbina in balia
Della tromba e dell'incendio
E fissandolo, sublime
Muore in turbini di fuoco.
O felice chi in un volo
Di gloriosa ribellione
Nell'orgoglio della forza
E l'ebbrezza del sognare
Come l'aquila soccombe
Mentre un fulmine balena.
(Da "Piccolo anello d'oro", Interlinea, Novara 2002)
LA LEPRE
di Aurelio Ugolini (1875-1907)
Pur ora, é ver, fra opache selve intatte
trasalivi anche allo sfrascar d'un vepre;
ma di paura il cuor più non ti batte,
pavida lepre.
Ora, lontana dal natio coviglio,
sembri adagiarti alfin paga e tranquilla:
dal fesso labbro al suolo il tuo vermiglio
sangue zampilla.
Ricordi tu le trepide speranze,
l'ombre che amiche t'adducea la bruna
sera e le tue vertiginose danze
sotto la luna?
O, impaziente, aneli forse ancora
l'acciar dei tesi tendini e i silvani
triboli dove ti frugò l'odora
forza dei cani?
Folle cui tarda, dietro la fugace
orma d'un sogno, racquetare il forte
desio che l'urge e l'affatica: è pace
sol nella morte.
(Da "Viburna", «La Vita Letteraria», Roma 1908)
Scampoli di letteratura dell'Ottocento e del Novecento, poeti dimenticati, vecchie antologie e altro ancora.
giovedì 30 aprile 2015
venerdì 24 aprile 2015
Gli eroi della Resistenza nei versi di due poeti neorealisti
In occasione del 25 aprile (e quest'anno si festeggiano i 70 anni dalla liberazione dell'Italia) ho scelto due poesie che parlano dei partigiani uccisi durante la 2° Guerra Mondiale. Gli autori di tali poesie furono definiti "neorealisti" per la cospicua presenza, nei loro scritti, di temi legati alle difficili condizioni di gran parte del popolo italiano nell'immediato dopoguerra; costoro ebbero una certa notorietà negli anni cinquanta del XX secolo.
Franco Matacotta (Fermo, 1916 – Genova, 1978) compì i suoi studi a Roma e cominciò a pubblicare dei versi nella rivista «Prospettive». Dopo gli esordi classicheggianti ed ermetici, testimoniati dalla raccolta Poemetti (1941), si dimostrò poeta impegnato, attento alla politica del suo tempo ed alle realtà sociali della nazione italiana. Di questa svolta sono testimonianza i volumi: Fisarmonica rossa (1945), La terra occupata (1946), Ubbidiamo alla terra (1949); alcune delle opere citate furono firmate con lo pseudonimo di Franco Monterosso, e tutte confluirono nella raccolta Canzoniere di libertà (1953). Interessanti sono anche i versi scritti successivamente, in cui si nota una profonda delusione per una situazione politica italiana che non rispondeva certo a quella auspicata. Nella poesia sotto riportata Matacotta immagina che i partigiani uccisi dai nemici nazifascisti tornino a vivere per gioire della tanto sospirata pace e della vittoria finale.
Mario Cerroni (Poggio Mirteto, 1921 - Udine, 1957) fu redattore della rivista «Momenti» e svolse l'attività di critico letterario presso la rivista «Il lavoratore». Fece parte di un gruppo poetico friulano riunitosi attorno ai «Quaderni del provinciale»; pubblicò alcune raccolte di versi tra le quali si citano: I canti della pace (1953), Il giorno sulla Vojussa (1955) e Il cuore sulle strade (1956). Morì a soli trentasei anni. Così come Matacotta, la poesia di Cerroni mostra caratteristiche inerenti all'impegno sociale e politico, a tal proposito dimostrativo è il testo qui presente, in cui il poeta ricorda in modo intenso un compagno di lotta partigiana rimasto vittima dei nemici.
CORO DI PARTIGIANI FUCILATI
di Franco Matacotta
O notte amara, notte senza pace,
di vetro scuro e avvelenate spine,
notte di nuovo ammantata d'orbace
agguato fosco che non ha più fine.
Stanno i cipressi come sentinelle
pronte per misteriose esecuzioni,
il vento sulle tombe senza stelle
rimbomba come un passo di plotoni.
Sul capo batte il maglio dei pensieri
come colpi d'ariete contro un muro,
il canto dei lontani carrettieri
sembra il singhiozzo cupo d'un tamburo.
Tutto è spento, sui fiori calpestati
palpita solo un grillo arrugginito,
ma ai partigiani morti fucilati
l'oro del sole non s'è mai scurito.
Il fulminato battito del cuore
ha ripreso a pulsare sotto l'erba,
come la punta del perforatore
scava nel buio la speranza acerba.
Come grappoli odorati d'acacie
nella notte sbocceranno le mani,
sarà l'aprile una pasqua di pace
per i soldati per i partigiani.
Sarà la pace una torcia di pino
sarà un fiammante fazzoletto rosso,
anche Cristo un purpureo collarino
avrà sul petto come un pettirosso.
Guanciale dolce di spigo e di melo,
pace, solo con te riavrò riposo,
come un'ape cullata sullo stelo
culla il mio sogno, vento doloroso.
(Da "Canzoniere di libertà", 1953)
LA MORTE DI CIRO
di Mario Cerroni
Se busserai alla porta appena il giorno
lievita nella voce dei lattai,
forse mi sarà strano il tuo saluto
che dicevano forte e alto, alzando
il pugno chiuso come se stringessimo
il verde sangue della patria aperta.
Una recente timidezza muto
mi renderebbe, dolce in fondo agli occhi,
a sentire la tua mano di pini
posarsi alla mia pagina sospesa.
Anch'io vorrei tornare alle parole
sulle pietre imparate alte dei fiumi,
intuite nel fondo della notte
quando s'usciva di pattuglia a accendere
il richiamo dei fuochi agli apparecchi,
alati crocifissi sulla neve.
Tu parlavi di muschi e di ginepri
e nel silenzio pur trovavi il segno
dell'aria colorata, sorridevi
a tuo figlio pensando che cresciuto
sarebbe spensierato nella pace.
Non domandarmi dove fu impiccato:
tu la conosci la storia degli uomini
che fermavano i panzer con le pietre.
Forse a un ramo di pesco di settembre,
forse a una draglia di battello, anche
può essere a una benna di cantiere.
Ciro è morto a disperdere nell'aria
alta delle domeniche di sagra
per sempre le paure, che cantassero
liberi gli uomini della montagna
e alla riva celeste dello Stella
le donne ci chiamassero all'amore.
(Da "Il giorno sulla Vojussa", 1955)
Franco Matacotta (Fermo, 1916 – Genova, 1978) compì i suoi studi a Roma e cominciò a pubblicare dei versi nella rivista «Prospettive». Dopo gli esordi classicheggianti ed ermetici, testimoniati dalla raccolta Poemetti (1941), si dimostrò poeta impegnato, attento alla politica del suo tempo ed alle realtà sociali della nazione italiana. Di questa svolta sono testimonianza i volumi: Fisarmonica rossa (1945), La terra occupata (1946), Ubbidiamo alla terra (1949); alcune delle opere citate furono firmate con lo pseudonimo di Franco Monterosso, e tutte confluirono nella raccolta Canzoniere di libertà (1953). Interessanti sono anche i versi scritti successivamente, in cui si nota una profonda delusione per una situazione politica italiana che non rispondeva certo a quella auspicata. Nella poesia sotto riportata Matacotta immagina che i partigiani uccisi dai nemici nazifascisti tornino a vivere per gioire della tanto sospirata pace e della vittoria finale.
Mario Cerroni (Poggio Mirteto, 1921 - Udine, 1957) fu redattore della rivista «Momenti» e svolse l'attività di critico letterario presso la rivista «Il lavoratore». Fece parte di un gruppo poetico friulano riunitosi attorno ai «Quaderni del provinciale»; pubblicò alcune raccolte di versi tra le quali si citano: I canti della pace (1953), Il giorno sulla Vojussa (1955) e Il cuore sulle strade (1956). Morì a soli trentasei anni. Così come Matacotta, la poesia di Cerroni mostra caratteristiche inerenti all'impegno sociale e politico, a tal proposito dimostrativo è il testo qui presente, in cui il poeta ricorda in modo intenso un compagno di lotta partigiana rimasto vittima dei nemici.
CORO DI PARTIGIANI FUCILATI
di Franco Matacotta
O notte amara, notte senza pace,
di vetro scuro e avvelenate spine,
notte di nuovo ammantata d'orbace
agguato fosco che non ha più fine.
Stanno i cipressi come sentinelle
pronte per misteriose esecuzioni,
il vento sulle tombe senza stelle
rimbomba come un passo di plotoni.
Sul capo batte il maglio dei pensieri
come colpi d'ariete contro un muro,
il canto dei lontani carrettieri
sembra il singhiozzo cupo d'un tamburo.
Tutto è spento, sui fiori calpestati
palpita solo un grillo arrugginito,
ma ai partigiani morti fucilati
l'oro del sole non s'è mai scurito.
Il fulminato battito del cuore
ha ripreso a pulsare sotto l'erba,
come la punta del perforatore
scava nel buio la speranza acerba.
Come grappoli odorati d'acacie
nella notte sbocceranno le mani,
sarà l'aprile una pasqua di pace
per i soldati per i partigiani.
Sarà la pace una torcia di pino
sarà un fiammante fazzoletto rosso,
anche Cristo un purpureo collarino
avrà sul petto come un pettirosso.
Guanciale dolce di spigo e di melo,
pace, solo con te riavrò riposo,
come un'ape cullata sullo stelo
culla il mio sogno, vento doloroso.
(Da "Canzoniere di libertà", 1953)
LA MORTE DI CIRO
di Mario Cerroni
Se busserai alla porta appena il giorno
lievita nella voce dei lattai,
forse mi sarà strano il tuo saluto
che dicevano forte e alto, alzando
il pugno chiuso come se stringessimo
il verde sangue della patria aperta.
Una recente timidezza muto
mi renderebbe, dolce in fondo agli occhi,
a sentire la tua mano di pini
posarsi alla mia pagina sospesa.
Anch'io vorrei tornare alle parole
sulle pietre imparate alte dei fiumi,
intuite nel fondo della notte
quando s'usciva di pattuglia a accendere
il richiamo dei fuochi agli apparecchi,
alati crocifissi sulla neve.
Tu parlavi di muschi e di ginepri
e nel silenzio pur trovavi il segno
dell'aria colorata, sorridevi
a tuo figlio pensando che cresciuto
sarebbe spensierato nella pace.
Non domandarmi dove fu impiccato:
tu la conosci la storia degli uomini
che fermavano i panzer con le pietre.
Forse a un ramo di pesco di settembre,
forse a una draglia di battello, anche
può essere a una benna di cantiere.
Ciro è morto a disperdere nell'aria
alta delle domeniche di sagra
per sempre le paure, che cantassero
liberi gli uomini della montagna
e alla riva celeste dello Stella
le donne ci chiamassero all'amore.
(Da "Il giorno sulla Vojussa", 1955)
giovedì 16 aprile 2015
Antologie: "Antologia della lirica contemporanea dal Carducci al 1940"
Le antologie della poesia italiana ottocentesca e,
soprattutto, novecentesca, uscite nel ventennio a cavallo tra la prima e la
seconda metà del XX secolo, posseggono peculiarità specifiche, molto simili
tra di loro. Tutte o quasi privilegiano un certo tipo di poesia che ha i suoi
cardini nelle cosiddette "Tre corone" impostesi alla fine
dell'Ottocento, ovvero Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli e Gabriele D'Annunzio.
Quindi vengono inseriti, dedicandogli uno spazio assai più breve, alcuni dei "poeti
minori" del secondo Ottocento; li seguono alcuni lirici che, pur non
rinnovando per nulla il modo di far poesia, trovarono il modo di emergere
cavalcando le poetiche dei loro illustri predecessori. Viene poi dato un certo
spazio ai crepuscolari e, in misura decisamente minore, ai futuristi. È poi la volta di quei nomi come
Ungaretti, Montale e Quasimodo, che hanno veramente impresso una svolta
innovativa nella poesia italiana, seguiti infine dagli ermetici (Gatto,
Sinisgalli), posti in mezzo a poeti che hanno ben poco in comune con questi
ultimi, e che praticamente chiudono la scelta. Anche questa antologia curata da
Enrico Maria Fusco non fa eccezione, a parte alcune curiose decisioni, come
quella di inserire, quasi al termine della sua opera, dei poeti attivi nel
secondo Ottocento (tra questi compare anche Umberto Saba!), preceduti dalla
dicitura: "Integrazione panoramica". Nel complesso l'antologia
risulta però interessante, e lo sono anche i commenti che il saggista dedica a
tutti i componimenti poetici. Ecco infine l'elenco dei poeti selezionati da
Fusco per la realizzazione di questa antologia.
ANTOLOGIA DELLA LIRICA CONTEMPORANEA DAL CARDUCCI AL 1940
Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Gabriele D'Annunzio,
Enrico Panzacchi, Mario Rapisardi, Giovanni Alfredo Cesareo, Arturo Graf,
Domenico Gnoli, Enrico Thovez, Massimo Bontempelli, Francesco Pastonchi, Ada
Negri, Vincenzo Gerace, Sebastiano Satta, Luigi Pirandello, Ardengo Soffici,
Giovanni Papini, Guido Gozzano, Sergio Corazzini, Marino Moretti, Giulio
Gianelli, Francesco Gaeta, Angiolo Silvio Novaro, Ceccardo Roccatagliata
Ceccardi, Francesco Chiesa, Pietro Mastri, Angelo Gatti, Giosuè Borsi, Vittorio
Locchi, Clemente Rebora, Arturo Onofri, Dino Campana, Corrado Govoni, Aldo
Palazzeschi, Diego Valeri, Vincenzo Cardarelli, Riccardo Bacchelli, Filippo
Tommaso Marinetti, Paolo Buzzi, Luciano Folgore, Fernando Losavio, Giuseppe
Villaroel, Ugo Betti, Renzo Pezzani, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale,
Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Lionello Fiumi,
Adriano Grande, Aldo Capasso, Maria Barbara Tosatti, Antonia Pozzi, Carlo
Betocchi, Giuseppe Gerini, Nicola Moscardelli.
INTEGRAZIONE PANORAMICA
Giovanni Marradi, Olindo Guerrini, M. Alinda Bonacci
Brunamonti, Vittoria Aganoor Pompilj, Giulio Salvadori, Adolfo De Bosis,
Giovanni Bertacchi, Giovanni Cena, Antonino Anile, Umberto Saba.
venerdì 10 aprile 2015
Poeti dimenticati: Francesco Saverio Tozzi
Nacque a Gettopalena (Chieti) nel 1863 e morì a Bucchianico (Chieti) nel 1887. Grazie anche all'aiuto di suo zio arciprete studiò e andò in seminario per poi essere ordinato sacerdote a ventitre anni. Si ammalò ben presto di tisi e morì a soli ventiquattro anni. Le sue poesie, inedite in vita, furono pubblicate in volume otto anni dopo la sua morte col titolo di Postuma. Dolore e morte sono i principali temi delle poesie di Tozzi, anche per il fatto che lui stesso visse gli ultimi anni della sua breve vita soffrendo e presagendo la fine anticipata.
Opere poetiche
"Postuma", Carabba, Lanciano 1895.
Presenze in antologie
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp. 57-61).
Testi
DIPARTITA
Povera madre! Al figlio stringeva le mani e tacendo
Con gli occhi parea dir: - Non andrai tu via;
Tu non mi lascerai a piangere, a piangere sola,
Unica speme e sola luce de' giorni miei! -
Non questo ella dicea, ma come da l'ima radice
Sentìa schiantarsi l'arbore di sua vita.
L'ultimo bacio alfine gli diede. - Non piangere, mamma, -
E' tra i singulti rotti ripeteva.
Non pianse ella; da lungi mirando, ne scorse la mano
Volta al saluto pria di sparire; ed allora
Scoppiò l'ambascia repressa, sonàr le querele
Che fe' la madre misera d'Eurialo,
Quando latina spada il candido petto gli ruppe,
Ed ella il biondo capo vide confitto ad un'asta.
(da "Postuma")
Opere poetiche
"Postuma", Carabba, Lanciano 1895.
Presenze in antologie
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp. 57-61).
Testi
DIPARTITA
Povera madre! Al figlio stringeva le mani e tacendo
Con gli occhi parea dir: - Non andrai tu via;
Tu non mi lascerai a piangere, a piangere sola,
Unica speme e sola luce de' giorni miei! -
Non questo ella dicea, ma come da l'ima radice
Sentìa schiantarsi l'arbore di sua vita.
L'ultimo bacio alfine gli diede. - Non piangere, mamma, -
E' tra i singulti rotti ripeteva.
Non pianse ella; da lungi mirando, ne scorse la mano
Volta al saluto pria di sparire; ed allora
Scoppiò l'ambascia repressa, sonàr le querele
Che fe' la madre misera d'Eurialo,
Quando latina spada il candido petto gli ruppe,
Ed ella il biondo capo vide confitto ad un'asta.
(da "Postuma")
domenica 5 aprile 2015
I versi dell'infanzia
Ecco venti
componimenti in versi che contraddistinsero gli anni della mia infanzia. Sto
parlando di oltre quaranta anni fa, quando, frequentando le scuole elementari e
medie, mi capitava di dover leggere e, in alcuni casi, imparare a memoria delle
poesie. Spesso, questa operazione forzata, non mi portava ad apprezzare
moltissimo quei versi: a volte ebbi anche dei brutti voti sul registro
scolastico perchè non seppi o non volli imparare perfettamente a memoria una
certa poesia. Ma, ritrovati quei vecchi libri scolastici e, riletti dopo tanti
anni quei versi, mi è sopravvenuta un'enorme nostalgia per un tempo perduto e
irripetibile; ed ora so apprezzare quelle poesie così come quei poeti che, coi
loro futili versi, riempivano le pagine delle antologie scolastiche di qualche
decennio fa.
Leggendole attentamente, si noterà che prevalgono alcuni autori famosi come Giovanni Pascoli o Gianni
Rodari, ma non mancano illustri sconosciuti che in vita, spesso e volentieri,
professarono l'insegnamento, e solo per passione scrissero dei versi in genere
destinati ai bambini. Gli argomenti dei testi qui presenti riguardano in molti
casi la natura, le stagioni dell'anno e gli eventi festivi: cose che col
passare degli anni erroneamente vengono marginalizzate a vantaggio di altre
assai meno importanti ed emozionanti; sono però presenti anche un paio di
componimenti prettamente patriottici che non potevano assolutamente mancare,
data la loro rilevanza e dato che rimangono particolarmente impressi nella memoria anche a distanza
di tanti anni. Quasi tutte le poesie sono state trascritte direttamente dai
testi scolastici e da altri indirizzati al pubblico infantile che ancora
posseggo; fa eccezione La notte santa
di Guido Gozzano, che non compare in alcuno dei libri da me consultati, ma che ben
ricordo di aver scritto sul mio quadernetto sotto dettatura della maestra.
X AGOSTO
di Giovanni Pascoli
(1855-1912)
San Lorenzo, io lo so
perché tanto
di stelle per l'aria
tranquilla
arde e cade, perché
sì gran pianto
nel concavo cielo
sfavilla.
Ritornava una rondine
al tetto:
l'uccisero: cadde tra
spini:
ella aveva nel becco
un insetto:
la cena de' suoi
rondinini.
Ora è là, come in
croce, che tende
quel verme a quel
cielo lontano;
e il suo nido è
nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più
piano.
Anche un uomo tornava
al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti
occhi un grido:
portava due bambole
in dono…
Ora là, nella casa
romita,
lo aspettano,
aspettano in vano:
egli immobile,
attonito, addita
le bambole al cielo
lontano.
E tu, Cielo,
dall'alto dei mondi
sereni, infinito,
immortale,
oh! d'un pianto di
stelle lo inondi
quest'atomo opaco del
Male!
(Da "Quante
strade, vol I", Loffredo, Napoli 1976)
A MIA MADRE
di Edmondo De Amicis
(1846-1908)
Non sempre il tempo
la beltà cancella
O la sfioran le
lacrime e gli affanni;
Mia madre ha
sessant’anni,
E più la guardo e più
mi sembra bella.
Non ha un detto, un
sorriso, un guardo, un atto
Che non mi tocchi
dolcemente il core;
Ah se fossi pittore
Farei tutta la vita
il suo ritratto.
Vorrei ritrarla
quando inchina il viso
Perch’io le baci la
sua treccia bianca,
O quando inferma e
stanca
Nasconde il suo dolor
sotto un sorriso.
Ma se fosse un mio
prego in cielo accolto
Non chiederei del
gran pittor d’Urbino
Il pennello divino
Per coronar di gloria
il suo bel volto;
Vorrei poter cangiar
vita con vita,
Darle tutto il vigor
degli anni miei,
Veder me vecchio, e
lei
Dal sacrifizio mio
ringiovanita.
(Da "Nuova guida
al comporre", Casa Editrice A. & C., Torino-Roma)
APRILE
di Graziella Ajmone
(1912-1993)
Aprile che ridi
con occhi turchini,
che il dono del sole
accogli con gridi
di bimbi e di
rondini;
Aprile che odori
di vento e di viole,
di prati e di fiori,
Aprile giocondo,
tu sei mio fratello:
un bimbo che vede
bellissimo il mondo.
(Da "Il fiore
d'oro 2. Letture del 1° ciclo", Editrice Noseda, Como 1970)
UN BAMBINO AL MARE
di Gianni Rodari
(1920-1980)
Conosco un bambino
così povero
che non ha mai veduto
il mare:
a Ferragosto lo vado
a prendere
in treno a Ostia lo
voglio portare.
- Ecco, guarda – gli
dirò -
questo è il mare,
pigliane un po’! -
Col suo secchiello,
fra tanta gente,
potrà rubarne poco o
niente:
ma con gli occhi che
sbarrerà
il mare intero si
prenderà.
(Da "I Quindici, I: Poesie e rime", Roma 1968)
I DODICI MESI
di Elda Bossi
(1901-1996)
Gennaio porta il
ceppo e la Befana,
Febbraio carnevale e
tramontana,
Marzo le pratoline e
le viole,
le rondinelle Aprile
e il dolce sole.
Salutan Maggio gli
uccellini in coro;
Giugno ha tra il
fieno lucciolette d’oro;
Luglio è biondo di
grano al sole;
Agosto porta frutta
dolci e buone;
Settembre ha l’uva
d’oro e di rubino,
Ottobre poi la pigia
dentro il tino;
Novembre porta i
fiori al Camposanto;
Dicembre culla i semi
sotto il manto.
(Da "Paese 3.
Letture del 2° ciclo", Editrice Le Stelle, Milano 1973)
FOGLIE GIALLE
di Trilussa (Carlo
Alberto Salustri, 1871-1950)
Ma dove ve ne andate,
povere foglie gialle
come farfalle
spensierate?
Venite da lontano o
da vicino,
da un bosco o da un
giardino?
E non sentite la
malinconia
del vento stesso che
vi porta via?
(Da "Paese 4.
Letture del 2° ciclo", Editrice Le Stelle, Milano 1973)
MEZZOGIORNO
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)
Chiesoline di
campagna
lontane e vicine,
i vostri campanilini
fumano
come tanti comignoli
di cucine.
Mezzogiorno !
«Bambini si va a
mangiare».
(Da "I Quindici,
I: Poesie e rime", Roma 1968)
LA MIA STELLA
di Francesco
Pastonchi (1874-1953)
Gli altri bimbi solo
essi eran bimbi:
Io no. Io ero un
bimbo che guardava
vivere gli altri,
capitato a caso
tra gli altri sulla
terra: certo un bimbo
caduto da una stella,
ecco. E la notte
scivolavo dal letto
per cercarla
di là dai vetri, al
buio, la mia stella.
(Da "I Quindici,
I: Poesie e rime", Roma 1968)
MILITE IGNOTO
di Renzo Pezzani
(1898-1951)
Fratello senza nome e
senza volto,
da una verde trincea
t'han dissepolto.
Dormivi un sonno
quieto di bambino,
un colpo avea
distrutto il tuo piastrino.
Eri soltanto un fante
della guerra,
muto perché
t'imbavagliò la terra.
Ora dormi in un'urna
di granito,
sempre di lauro
fresco rinverdito.
E le madri che più
non han veduto
tornare il figlio,
come te, caduto,
né sanno dove
l'abbiano sepolto,
ti chiamano e
rimangono in ascolto,
se mai la voce ti
donasse Iddio
per dire: «O madre,
il figlio tuo son io».
(Da "Paese 4.
Letture del 2° ciclo", Editrice Le Stelle, Milano 1973)
NEL GIORNO DEI MORTI
di Maggiorina
Castoldi
Piove nebbia sulle
croci. Poche voci
van nell'aria,
pianamente;
cantilene
dolci e tristi,
bisbigliate,
fra le tombe
seminate.
Va la gente
lenta, assorta; altra
ne viene,
altra sosta al tuo
cancello
per segnarsi, o
campicello
benedetto.
Sulle braccia tese ha
un fiore
ogni croce, e più
d'un lume
fioco spande il suo
chiarore
nelle brume.
(Da "Paese 5.
Letture del 2° ciclo", Editrice Le Stelle, Milano 1972)
LA NOTTE SANTA
di Guido Gozzano
(1883-1916)
- Consolati, Maria,
del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco
Betlemme ornata di trofei.
Presso quell’osteria
potremo riposare,
ché troppo stanco
sono e troppo stanca sei.
Il campanile scocca
lentamente le sei.
- Avete un po’ di
posto, o voi del Caval Grigio?
Un po’ di posto per
me e per Giuseppe?
- Signori, ce ne
duole: è notte di prodigio;
son troppi i
forestieri; le stanze ho piene zeppe
Il campanile scocca
lentamente le sette.
- Oste del Moro,
avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non
regge ed io son così rotto!
- Tutto l’albergo ho
pieno, soppalchi e ballatoi:
Tentate al Cervo
Bianco, quell’osteria più sotto.
Il campanile scocca
lentamente le otto.
- O voi del Cervo
Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire?
Non ci mandate altrove!
- S’attende la
cometa. Tutto l’albergo ho pieno
d’astronomi e di
dotti, qui giunti d’ogni dove.
Il campanile scocca
lentamente le nove.
- Ostessa dei Tre
Merli, pietà d’una sorella!
Pensate in quale
stato e quanta strada feci!
- Ma fin sui tetti ho
gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi
persiani, egizi, greci...
Il campanile scocca
lentamente le dieci.
- Oste di Cesarea...
- Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua
moglie? Albergarli per niente?
L’albergo è tutto
pieno di cavalieri e dame
non amo la miscela
dell’alta e bassa gente.
Il campanile scocca
le undici lentamente.
La neve! - ecco una
stalla! - Avrà posto per due?
- Che freddo! - Siamo
a sosta - Ma quanta neve, quanta!
Un po’ ci scalderanno
quell’asino e quel bue...
Maria già trascolora,
divinamente affranta...
Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.
È nato!
Alleluja! Alleluja!
È nato il Sovrano
Bambino.
La notte, che già fu
sì buia,
risplende d’un astro
divino.
Orsù, cornamuse, più
gaje
suonate; squillate,
campane!
Venite, pastori e
massaie,
o genti vicine e
lontane!
Non sete, non molli
tappeti,
ma, come nei libri
hanno detto
da quattro mill’anni
i Profeti,
un poco di paglia ha
per letto.
Per quattro mill’anni
s’attese
quest’ora su tutte le
ore.
È nato! È nato il
Signore!
È nato nel nostro
paese!
Risplende d’un astro
divino
La notte che già fu
sì buia.
È nato il Sovrano
Bambino.
È nato!
Alleluja! Alleluja!
(Da "L'incanto
del Natale", Paoline Editoriale libri, Milano 1996)
I PASTORI
di Gabriele
D'Annunzio (1863-1938)
Settembre, andiamo. È
tempo di migrare.
Ora in terra
d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e
vanno verso il mare:
scendono
all’Adriatico selvaggio
che verde è come i
pascoli dei monti.
Han bevuto
profondamente ai fonti
alpestri, che sapor
d’acqua natía
rimanga ne’ cuori
esuli a conforto,
che lungo illuda la
lor sete in via.
Rinnovato hanno verga
d’avellano.
E vanno pel tratturo
antico al piano,
quasi per un erbal
fiume silente,
su le vestigia degli
antichi padri.
O voce di colui che
primamente
conosce il tremolar
della marina!
Ora lungh’esso il
litoral cammina
la greggia. Senza
mutamento è l’aria.
il sole imbionda sí
la viva lana
che quasi dalla
sabbia non divaria.
264
Isciacquío,
calpestío, dolci romori.
Ah perché non son io
co’ miei pastori?
(Da "Quante
strade, vol I", Loffredo, Napoli 1976)
QUANTI PESCI CI SONO
NEL MARE?
di Gianni Rodari
(1920-1980)
Tre pescatori di
Livorno
disputarono un anno e
un giorno
per stabilire e
sentenziare
quanti pesci ci sono
nel mare.
Disse il primo: «Ce
n’è più di sette,
senza contare le
acciughette».
Disse il secondo: «Ce
n’è più di mille,
senza contare scampi
ed anguille».
Il terzo disse: «Più
di un milione!»
E tutti e tre avevano
ragione.
(Da "I Quindici,
I: Poesie e rime", Roma 1968)
LA QUERCIA CADUTA
di Giovanni Pascoli
(1855-1912)
Dov’era l’ombra, or
sè la quercia spande
morta, nè più coi
turbini tenzona.
La gente dice: Or
vedo: era pur grande!
Pendono qua e là
dalla corona
i nidietti della
primavera.
Dice la gente: Or
vedo: era pur buona!
Ognuno loda, ognuno
taglia. A sera
ognuno col suo grave
fascio va.
Nell’aria, un pianto...
d’una capinera
che cerca il nido che
non troverà.
(Da "Paese 5.
Letture del 2° ciclo", Editrice Le Stelle, Milano 1972)
IL ROSPO E IL VILLANO
di Ferruccio Orsi
Stava nel mezzo a un
prato
un grosso rospo mezzo
addormentato.
Avvenne che di lì
passando a caso,
lo vide un certo
contadin, un certo Maso.
Tolse dal vicin campo
un grosso palo
per dare al rospo con
quel palo addosso.
«Fermati!» disse il
povero animale.
«O che t’ho fatto,
Maso mio, di male?
Io non ti rubo nulla,
anzi ti netto
i prati e i campi
d’ogni tristo insetto.
Sono brutto, lo so,
ma, caro mio,
e se son brutto, che
colpa ce n'ho io?».
Commosso e
vergognoso, quel villano,
tosto il palo gettò a
sé lontano
e disse: «Poveretto,
hai ben ragione!
io commettevo una
cattiva azione.
Ma di già rospo mio,
per dar molestia,
spesso l’uomo è più
bestia della bestia».
(Da "Nuova guida
al comporre", Casa Editrice A. & C., Torino-Roma)
SAN MARTINO
di Giosuè Carducci
(1835-1907)
La nebbia a gl'irti
colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il
mar;
ma per le vie del
borgo
dal ribollir de' tini
va l'aspro odor dei
vini
l'anime a rallegrar.
Gira su' ceppi accesi
lo spiedo
scoppiettando
sta il cacciator
fischiando
su l'uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli
neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.
(Da "Nuova guida
al comporre", Casa Editrice A. & C., Torino-Roma)
SCUOLA DI CAMPAGNA
di Renzo Pezzani
(1898-1951)
È fuori dal borgo due
passi
di là del più fresco
ruscello
recinta di muro e
cancello
la piccola scuola di
sassi.
Agnella staccata dal
branco
col suono che al
collo le han messo
richiama ogni bimbo
al suo banco
nell’aula che odora
di gesso.
C’è ancora la vecchia
lavagna
con su l’alfabeto mal
fatto:
lo scrisse un bambino
distratto
dal verde di quella
campagna.
E lei, che mi vide a
sei anni,
c’è ancora. La voce
un po’ fioca,
vestita d’identici
panni,
la vecchia signora
che gioca.
C’è ancora il vasetto
d’argilla
che m’ebbe suo buon
giardiniere;
è verde, fiorito di
lilla,
e un bimbo gli porta
da bere.
Il tempo passò senza
lima
su queste memorie.
Ritorno
lo stesso bambino
d’un giorno
sereno, nell’aula di
prima.
E in punta di piedi,
discreto,
nell’ultimo banco mi
metto
e canto, nel dolce
coretto
dei bimbi, l’antico
alfabeto.
(Da "Parliamo
la nostra lingua", De Agostini, Novara 1974)
LA SPIGOLATRICE DI
SAPRI
di Luigi Mercantini
(1821-1872)
Eran trecento, eran
giovani e forti, e sono morti!
Me ne andavo al
mattino a spigolare,
quando vidi una barca
in mezzo al mare:
era una barca che
andava a vapore;
e alzava una bandiera
tricolore;
all'isola di Ponza
s'è fermata,
è stata un poco e poi
è ritornata;
è ritornata ed è
venuta a terra;
sceser con l'armi, e
a noi non fecer guerra.
Sceser con l'armi, e
a noi non fecer guerra,
ma s'inchinaron per
baciar la terra,
ad uno ad uno li
guardai nel viso;
avean tutti una
lagrima e un sorriso.
Lì, li dissero: ladri
usciti dalle tane,
ma non portaron via
nemmeno un pane;
ma li sentii mandare
un solo grido:
«Siam venuti a morir
pel nostro lido».
Con gli occhi azzurri
e i capelli d'oro
un giovin camminava
innanzi a loro.
Mi feci ardita, e,
presol per mano,
gli chiesi: «Dove
vai, bel capitano?»
Guardandomi, rispose:
«Cara sorella...
vado a morir per la
mia patria bella».
Io mi sentii tremare
tutto il core,
che non potei dirgli:
«V'aiuti il Signore!»
Quel giorno
dimenticai di spigolare,
e dietro a loro
decisi d'andare.
Due volte si scontrar
con li gendarmi,
e l'una e l'altra li
spogliar dell'armi;
ma quando fur della
Certosa ai muri,
s'udirono suonar
trombe, gridi e tamburi;
e tra fumo, spari,
urla e scintille
piombaro loro addosso
più di mille.
Eran trecento, e non
vollero fuggire;
parean tremila e
vollero morire:
vollero morir col
ferro in mano,
e avanti a loro
correa di sangue il piano:
fin che pugnar vid'io
per lor pregai;
ma a un tratto venni
men, né più guardai;
io non vedeva più fra
mezzo a loro
quegli occhi azzurri
e quei capelli d'oro.
Eran trecento, eran
giovani e forti, e sono morti!
(Da "Tamburino
'65. Sussidiario 5°", Editrice Le Stelle, Milano 1974)
SPERANZA
di Milly Dandolo
(1895-1946)
C’è un grande albero
spoglio
in mezzo all’orto:
pare
che soffra e non si
possa
coprire e riscaldare.
Vola sui nudi rami
un passero sperduto,
e cinguetta più forte
in segno di saluto.
Geme l’albero: “Un
tempo
fui giovane e fui
bello:
candidi fiorellini
erano il mio
mantello.”
Il passero cinguetta:
“Oh vecchio albero,
spera!
Si scioglieran le
nevi:
verrà la
primavera."
(Da "Paese 4.
Letture del 2° ciclo", Editrice Le Stelle, Milano 1973)
L’ULTIMA ORA DI
VENEZIA
di Arnaldo Fusinato
(1817-1888)
È fosco l’aere,
È l’onda muta!...
Ed io sul tacito
Veron seduta,
In
solitaria
Malinconia,
Ti guardo, e lagrimo,
Venezia mia!
Sui rotti nugoli
Dell’Occidente
Il raggio perdesi
Del sol morente,
E mesto sibila,
Per l’aura bruna,
L’ultimo gemito
Della laguna.
Passa una gondola
Della città:
― Ehi! della gondola
Qual novità ?
― Il morbo infuria...
Il pan ci manca...
Sul ponte sventola
Bandiera bianca! ―
No, no, non splendere
Su tanti guai,
Sole d’Italia,
Non splender mai!
E sulla veneta
Spenta fortuna
Sia eterno il gemito
Della laguna!
Venezia, l’ultima
Ora è venuta;
Illustre martire,
Tu sei perduta;
Il morbo infuria,
Il pan ti manca,
Sul ponte sventola
Bandiera bianca!
Ma non le ignivome
Palle roventi,
Nè i mille fulmini,
Su te stridenti,
Troncan ai liberi
Tuoi dì lo stame:
Viva Venezia:
Muor della fame!
Sulle tue pagine
Scolpisci, o Storia,
Le altrui nequizie
E la tua gloria,
E grida ai posteri
Tre volte infame
Chi vuol Venezia
Morta di fame.
Viva Venezia!
Feroce, altiera,
Difese intrepida
La sua bandiera;
Ma il morbo infuria,
Il pan le manca;
Sul ponte sventola
Bandiera bianca!
Ed ora infrangasi
Qui sulla pietra,
Finch’è ancor libera,
Questa mia cetra.
A te, Venezia,
L’ultimo canto,
L’ultimo bacio,
L’ultimo pianto!
Ramingo ed esule
Sul suol straniero,
Vivrai, Venezia,
Nel mio pensiero;
Vivrai nel tempio
Qui del mio cuore,
Come l’imagine
Del primo amore.
Ma il vento sibila,
Ma l’onda è scura,
Ma tutta in gemito
È la natura:
Le corde stridono,
La voce manca,
Sul ponte sventola
Bandiera bianca!
(Da "Tamburino
'65. Sussidiario 5°", Editrice Le Stelle, Milano 1974)
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