martedì 25 marzo 2014

Poeti dimenticati: Aleardo Kutufà

Filippo Argenti, che in arte acquisì lo pseudonimo di Aleardo Kutufà d'Atene (la sua famiglia aveva origini ateniesi), nacque a Livorno nel 1888 e morì, presumibilmente nella stessa città toscana, nel 1950. Artista eclettico, nella sua vita praticò molte discipline, tra le quali la musica, la pittura e la poesia. Pubblicò pochi versi, la maggioranza dei quali si trovano in Elegia delle città morte (1928), in cui dimostrò la sua propensione alla poetica crepuscolare, anche se molto in ritardo rispetto all'età d'oro della famosa scuola poetica italiana. I temi e le atmosfere di queste composizioni molto ricalcano quelli di Sergio Corazzini: domeniche squallide, giardini abbandonati, vie deserte, musiche malinconiche, fanali, beghine, suore, malati ecc.



Opere poetiche

"Il Castello della Voluttà", Roma 1919.
"Elegia delle città morte", Tip. Benvenuti e Cavaciocchi, Livorno 1928.




Testi

LA VOCE DELLI ORGANI

Mi piace talvolta ascoltare con poesia,
con malinconia,
guardando per le ciglia socchiuse
la pelle rosea o bruna
di una bambina devota
che non conosco;
mi piace talvolta nelle chiese deserte,
ascoltare con poesia,
con malinconia,
le lunghe lente note
di musiche ignote
che organisti solinghi
suonan su le tastiere
di vecchissimi organi
perseguendo i loro sogni
pieni di nostalgia
innanzi alli altari spenti,
mentre nell'aria è l'odore sottile degl'incensi
un po' svaniti, e fuori,
su le dolci cose di primavera,
fuori, su i fiori dei prati e dei giardini
conclusi,
fuori, su i calici dei gelsomini schiusi,
su li alberi della magnolia
carichi di profumi bianchi,
su li stanchi sogni dei poeti errabondi,
su le mani un po' pallide
delle vogliose
adolescenti,
su le chiare vesti succinte delle amanti
frettolose,
su tutte le cose
dolci che la primavera accarezza
con le sue dita ignave
scende una pioggia soave
come il pianto di un'ebrezza
sconosciuta, di un'ebrezza che sia
più acuta di un dolore
nascosto
e più sottile della malinconia
di un morto amore.
Mi piace talvolta sognare con poesia,
con malinconia,
guardando per le ciglia socchiuse
la pelle rosea o bruna
di una bambina devota
mentre un vecchio organo piange
in una chiesa remota,
e nell'aria è un odore
d'aromi
così tenue che a pena si sente,
e fuori piove dolcemente
sul sacrato ch'è verde d'umidore;
mi piace talvolta, per lunghe ore,
nelle chiese deserte,
sognare con poesia,
con malinconia
i grandi nerissimi occhi
della mia bimba perduta,
quei neri occhi d'Oriente
che per la più acuta
mia carezza
languivano d'ebrezza
appassionatamente,
come per morire.

(da "Il Castello della Voluttà")




SILENZIO DELLE MESTE DOMENICHE

Silenzio, dolce ristoro
delle meste domeniche;
tristezza
inesplicabile, impressione
indefinibile
come della fragranza
di una ghirlanda
funebre
per un'educanda
morta
prima d'essere suora;
sensazione
mesta e angelica
d'avere in una stanza
della propria dimora
una piccola sorella
- ah, come bella!... -
malata
senza speranza,
che nella mattinata
s'è comunicata.


(da "Elegia delle città morte")






lunedì 24 marzo 2014

Antologie: "Adunata della poesia"



Tra le antologie dedicate alla lirica italiana uscite durante il ventennio fascista merita qualche parola anche "Adunata della Poesia": opera curata da Arnolfo Santelli e uscita in due edizioni: la 1° da Innocenti e Pieri nel 1928, la 2° da Editoriale Italiana Contemporanea nel 1929. Il titolo, perfettamente adeguato ai tempi, evidenzia in modo un po' ridicolo la genesi del libro, sorto da un appello del curatore (che si definisce adunatore) rivolto a tutti gli scrittori e soprattutto ai poeti d'Italia, affinché spedissero presso la sua redazione i loro scritti, per far sì che, dopo accurata selezione, lo stesso potesse costruire, mattone su mattone, un'opera in grado di porre in risalto i migliori talenti del periodo. Insomma il generale Santelli chiama a forte voce tutti i suoi "soldati-poeti" e sceglie i più valenti per la sua "ardita missione". Nella prefazione all'antologia, ecco, tra le altre cose, quello che scrive (con molta retorica) Santelli:

Lettore!
Quest' «Adunata della Poesia» fatta col solo intento d'una maggiore notorietà dei valori letterari nazionali nuovi e recenti, non vuol dimenticare quelli ignoti o comunque trattenuti per diverse e disparate ragioni, fra le quali, non ultime, la modestia e l'isolamento - e perciò appunto li proietta in primo piano.
Se ne sia valsa la pena è giudizio che darà la storia: il nostro è compito di propulsione e di valorizzazione.

Chiudo riportando i nomi dei poeti (escludendo perciò i prosatori) presenti nell'antologia.


Valerio Abbondio, Garibaldo Alessandrini, Alga Marina, Gino Altoviti, Antonino Anile, Giulio Aromolo, Carlo Baccari, Alfredo Baccelli, Sandro Baganzani, Leopoldo Baroni, Sandra Basilea, Michele Bianco, Federico Binaghi, Giovanni Bizzarri, Bice Bolognesi, Enrico Braccesi, Giuseppe Brancolini, Teodoro Bricos, Enrico Aldo Brizzi, Paolo Buzzi, Pasquale Cafaro, Alessandro Caia, Carmine Calandra, Diego Calcagno, Nella Doria Cambon, Francesco Cangiullo, Giovanni Cardella, Gino Catarzi, Alberto Cavaliere, Pasquale Cavallaro, Francesco Cazzamini Mussi, Aurelio Ceriello, G. Rodolfo Ceriello, G. Alfredo Cesareo, Raffaele Ciampini, Edoardo Cimbali, Delfino Cinelli, Giuseppe Cipparone, Castrense Civello, Ferruccio Coen, Gustavo Brigante Colonna, Carmelo Cordaro, Anton Florio Crimi, Luigi Crociato, Antonio Cuccaro, Gino Cucchetti, Leo D'Alba, Enrico D'Amia, Aleardo D'Atene Kutufà, Torquato Dazzi, Augusto De Benedetti, Angiolo Della Massea, Gino Del Guasta, G. De Logu Solinas, Vincenzo De Simone, Francesco Di Chiara, Tullio Didero, Olinto Dini, Eriberto D'Ippolito, Piero Domenichelli, Tina Doria, Giuseppe Fabris, Lina Ariana Fanno, Agostino Fattori, Lionello Fiumi, Fra' Giocondo, Enrico Fusco, Augusto Garsia, Mario Gastaldi, Giuseppe Cartella Gelardi, Vincenzo Gerace, Enrico Gerelli, Ugo Ghiron, Bruno Geffrè, Giacomo Giardina, Emilio Girardini, Domenico Giuliotti, Giovanni Golinelli, Giulio Gozzi, Ester Guglielmi, Giovanni Guzzardi, Edmondo Lapi, Orazio Lapini, Gerardo Lentini, Celso Augusto Lenzi, Argiro Licudis, Giuseppe Lipparini, Mansueto Lombardo-Lotti, Momo Longarelli, Giuseppe Longo, Salvatore Lo Presti, Marino Marin, Guido Marta, Corrado Martinetti, Pietro Mastri, Armando Mazza, Massimo Mazzanti, Riccardo Melani, Rosolino Melotti, Arturo Moggia, Tullio Murri, Hrand Nazariant, Ada Negri, Giuseppe Nicolosi Scandurra, Angiolo Silvio Novaro, Giovanni Orsini, Aldo Palatini, Vittorio Parisi, Francesco Antonio Perri, Donato Persichetti, Fiorenza Perticucci De Giudici, Edvige Pesci Gorini, Leon Maria Pessina, Renzo Pezzani, Lya Piazza, Pio Piet, Ottavio Profeta, Daniele Prosperi, Aristide Puglia, Margherita Marchis Romano, Pietro Romanelli, Alfonso Ricolfi, Raimondo Raimondi, Giovanni Maria Salvarezza, Giovanni Campus Santinelli, Gaetano Scarlata, Vincenzo Schivo, Saverio Sechini, Niccolò Sigillino, Maria Signorile, Francesco Sofia Alessio, Giovanni Spampinato, Massimo Spiritini, Gino Striuli, Arturo Tafuri, Pietro Conti Tarantino, Giovanni Tassoni, Giovanni Titta Rosa, Pia Tosca, Nicola Valenza, Giuseppe Villaroel, Nando Vitali, Amilcare Zumino.      



venerdì 21 marzo 2014

La primavera in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Che cosa si può dire della primavera: la stagione più decantata ed amata dagli artisti e da tutti coloro che adorano la natura. In primavera tutto rinasce, la vita ricomincia ed anche quelli che soffrono, con l’arrivo dei primi tepori, dei fiori sugli alberi e delle amate rondini, tornano a sperare. Anch’io provo queste sensazioni, poichè ancora una volta sono riuscito a superare un lungo, duro, crudele inverno, e sono qui con voi a gioire, perché è primavera!




BALLATA DELLA PRIMAVERA

di Sergio Corazzini (1886-1907)

O Primavera, Sandro Botticelli
sentì fiorire in cuore i tuoi rosai
poi che ti seppe come niuno mai
ne la soavità de’ suoi pennelli.

Ancor io, giovinetta, una fiorita
di mammole e di rose ebbi nel cuore
e m’era dolce assai tuo venimento
e m’era triste assai tua dipartita;

non oggi, o Primavera, ché il Dolore
come tarlo nel cuor rodere io sento
quasi per demoniaco incantamento;

non oggi, o Primavera, ché di spine
fatte del mio buon sangue porporine
come Cristo ho corona ai miei capelli.

(Da "Dolcezze", 1904)




A CELLINO
di Mario Novaro (1868-1944)

Uccellin che non ti vedo,
dove canti così lieto?
ruvida l’aria, nudi i rami,
ancora è inverno, e tu già canti?

- Primavera viene viene viene
sì sì sì primavera viene:
io lo so, io lo so, io lo so -
oh come folle tu canti! ma dove?

Nel cuore nel cuore tu canti:
invisibile ti vedo ti sento:
nell’aria ruvida, sui nudi rami
annunzi che viene, che sempre ritornerà.

(Da "Murmuri ed echi", 1912)




PRIMAVERA BORGHESE
di Enrico Cavacchioli (1885-1954)

Tardi viali, impigriti nell'ombra calda dell'ultimo sole!
Si confondono le cose in una nube diafana di lontananza
e gli alberi protendono le grandi braccia vestite
di una frangia verde di foglie vive,
sui sedili solitari: dove bisbigliano gli amanti primaverili.
Quest'angolo di mistero spalanca i panorami azzurri
del desiderio in tutte le pupille che sognano,
e il desiderio ad ogni istante si raddoppia.
Passano una alla volta, coppia dopo coppia,
uomini e donne avvolti in mantelli di tenebre.
Vanno col passo stanco come se indugiassero sui loro baci,
come se camminassero sulle loro parole dolcissime:
nel paese degli innamorati
che la primavera accende di piccole lucciole sentimentali.
La città si è dimenticata del grande giardino, che vive
all'ombra solitaria della sua decrepitezza,
ed all'infuori di queste ombre d'amore, che passano
abbracciate, forse per una volta sola, in cerca della gioia,
nessuno disturba il silenzio della solitudine borghese:
nemmeno i grilli!
Gli alberi soli si profilano nel cielo, dondolando
le braccia, quasi che ad ogni coppia che passa
e si allontana sulla cadenza dei baci lunghissimi,
volessero lanciare una pioggia di fiori:
come un pugno di confetti.
Diventano più violetti
ad ogni minuto: poi s'inchinàno alle stelle
in un gaglioffo saluto,
e s'addormentano in un'estasi generale
immobili: per non turbare con la presenza importuna
questi falsi richiami ciabattoni
di falsi innamorati: troppo ubriachi di luna....

(Da "Cavalcando il sole", Edizioni di Poesia, Milano 1914)




QUADRETTO DI PRIMAVERA
di Virgilio Giotti (1885-1957)

Un solco lungo e dritto, che la pioggia
molta ha ripieno, e ove si specchia il cielo
azzurro tra vivace ortaglia. In cima
un pezzetto di prato umido e fresco.
Dietro v'è una stradetta. Io non la vedo.
Me l'asconde la siepe con la bianca
sua fioritura. Questo vo guardando
dalla finestra: lo guardo e m'allegro.

(Dalla rivista «Circoli», novembre-dicembre 1931)




PRIMAVERA CITTADINA
di Vincenzo Cardarelli (1887-1959)

Fra tuoni allegri e raffiche puerili
la primavera mette i suoi colori
e spiega la sua bandiera
come una cerimonia militare
che si svolge con qualunque tempo.
Di giorno in giorno avanza
l'irrompente stagione.
E già la terra è piena
del suo passaggio
e del suo fresco e molle detrito.
Il biancospino è fiorito e sfiorito
aspettando la polvere di maggio.
Gli alberi che vedemmo lungo il fiume
tutto un inverno nudi
hanno le foglie nuove e i tronchi neri.
Una vita incredibile e segreta
scorre in quei fusti umidi e adorni
di sì tenera chioma.
A pie' dei vecchi muri
le prode rinverdite
son come carne d'adolescente,
e si risentono i ruderi.
Ma le orgogliose piante sempreverdi
non conoscono primavera.
Decorosa tristezza di quegli alberi,
ornamento dei nostri giardini,
che ottobre non denuda
e aprile non rinnova.
Insensibili piante. Sono pari
ai monumenti cui fanno corona
e non sospirano che il plenilunio
e un usignolo che le consoli.

(Da "Giorni in piena", Quaderni di Novissima, Roma 1934)




GIOIA PRIMAVERILE
di Olinto Dini (1873-1951)

Ho smarrito il passato;
mi sembra nuova questa
gioia primaverile.
Negli occhi ho un dolce stupore:
simile a quello d'un fiore
che, appena sbocciato,
vede l'aprile.

(Da "Voci della mia sera", L'Eroica, Milano 1937)




PRIMAVERA DEL '54
di Piero Bigongiari (1914-1997)

Grige le sere, come vetro il mondo
su cui posando il piede non s'incrina,
sul tuo sorriso ultimo una brina
si sfarina leggera lacrimando.

Le rose gialle péstano l'azzurro
del cielo, un'altra verità indistinta
romba nel gridìo del silenzio, aumenta
fitto i suoi voli tenebrosi il merlo

sull'inferriata dove già s'è punta
le mani un'altra primavera, spunta
peloso il cardo sonnacchioso, cerco
con gli occhi invano dove può coincidere

il riso concitato con quel pianto
che non ha occhi per sgorgare, il lampo
col suo baleno, il mio terreno esistere
con la falcata che stramazza o il volo

dell'ibis sul nilo, estratto il piede
dal canneto fangoso verso i Morti...
un'altra verità, terra, o che porti
senz'ali a ognuno che in attesa crede?

(Da "Il corvo bianco", Edizioni della Meridiana, Milano 1955)




PRIMAVERA DI TOMBE
di Luigi Fallacara (1890-1963)

Sulla pietra tombale il brullo suolo
si costella iridato di licheni,
primavera di tombe. E appena un volo
tacito di colombe l'aria tiene.

Così stride la foglia secca quasi
flauto segreto che soltanto i venti
conoscono con musiche pervase
da melodie che hanno un solo accento.

Alla morte sepolta ancora arride
misteriosa una stagione estrema,
con le foreste minime sui gelidi
pavimenti del tempo e il tempo preme.

Verdi aloni, mollezze di velluto,
là tra i pori dei marmi, nel tessuto
delle vene di pietra e, sopra i labbri
delle crepe, leggere ocre e cinabri.

Gocce di primavere in noi sfiorite
macchie, là, superfici della vita
combaciate col buio della morte,
e non saprai giammai quale è più forte.

(Da "Celeste affanno", Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1956)




PRIMA NOTTE DI PRIMAVERA
di Mario Luzi (1914-2005)

Che muore, che nasce
ora che un brontolio di tuono sgretola
l'altezza della notte, annunzio
improvviso di primavera che rompe il sonno...

Generazioni su generazioni
d'uomini chi vinto chi levato
nella fierezza dei suoi mali, età
profonde con dolore una nell'altra,
in una sofferenza, in un sol punto
premono, fanno tutte ressa, e geme
e cigola da pila a pila il ponte
oscuro verso l'ultima campata
e la pianta protesa dalla radice al frutto.

Porto la mano sulla fitta, ascolto.
Prima notte di primavera, gonfia
e lacera tra l'avvenire e l'essere.

(Da "Dal fondo delle campagne", Einaudi, Torino 1965)




PRIMAVERA
di Fernando Bandini (1931-2013)

Il cielo è meno altezzoso:
si piega su noi volentieri,
trasmette nuove regole
mescola azzurro e suoni di clacson.

Chiusi in casa i nemici del poeta
affilano punte
di frecce sul loro display.

(Da "Santi di Dicembre", Garzanti, Milano 1994)

domenica 16 marzo 2014

La primavera in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Io e Maria, questa mattina che marzo finalmente ci offre un sole caldo, siamo usciti e ci siamo addentrati in una strada di campagna. Camminavamo placidi e felici, guardando intorno a noi le piante rifiorire, i prati più verdi del solito, gli animali e le poche persone che incontravamo lungo il nostro cammino senza una meta. Non pensavo fosse tanto bello camminare spensierati, in un bel giorno di marzo, quando la primavera fa capolino. In me, oggi, improvvisamente sono rinati tanti pensieri meravigliosi, che si erano nascosti dentro la mia mente (chissà dove!); ho parlato con Maria di noi, dei bei ricordi che ci accomunano, di questa giornata della nostra vita che, probabilmente, non dimenticheremo mai più. Lei mi ha sorriso, voltandosi dalla mia parte mentre il sole illuminava il suo bel viso, e mi ha detto “sì”.




PRIMAVERA

di Alessandro Poerio (1802-1848)

Da le nubi feconde 
Primavera giù piove e rugiadosa 
Da la terra riesce, 
Sovra l’acque si posa, 
All’aure fuggitive 
Con l’alito si mesce, 
Si trascolora di volubil luce, 
E in ogni petto vive.

Eppur, mentre ogni petto 
Ne bee tanto diletto, 
Una mestizia trepida e segreta 
Profondamente induce; 
Qual giovin donna e lieta 
Che, mentre t’empie di dolcezza il core, 
Spira l’affanno donde nasce amore. 
Per questa terra d’ubertà felice, 
Che facile risponde 
All’eterea vezzosa allettatrice, 
Mio sguardo erra e soggiorna; 
Ma il pensier se ne vola 
Assai lungi e ritorna 
Ignudo e disïoso alla parola.

Forte m’invoglio ove riposta valle 
Giace, quivi gittar le stanche membra. 
La chiusa solitudine del loco 
Riposo antico e mia pace mi sembra, 
A cui non venni per girar di calle, 
Ma come augello ad inaccesso nido. 
Perché sì pieno error dura sì poco? 
Del mondo ch’io lasciai dietro le spalle 
Pur mi raggiunge il grido.

E in te, riso de l’anno, in te possente 
Ebbrezza di Natura, eterne vie 
Di futuro dolor trova la mente. 
Come fuor de la notte il sonno balza, 
E rende al sol le cose 
Cui già la nova tenebria minaccia, 
Tale dal verno primavera, ed alza 
La bellissima faccia, 
E fa intorno fiorir le piante e l’erbe; 
Vivaci, inconsapevoli di morte, 
Brevemente superbe.

(Da "Poesie", Carabba, Lanciano 1917)




PRIMAVERA
di Giovanni Prati (1814-1884)

Primavera non vien fuor che una volta 
A fiorir l'anno: e quando 
Dal canestro versò l'ultima rosa, 
La bella Giovinetta in sé raccolta 
Parte da noi, lasciando 
Un soave ricordo in ogni cosa. 
Delle rugiade il pianto 
Resta all'alba: alla siepe un fil d'odore: 
A qualche gelso un canto 
Di solingo augelletto: 
E resta all'uman petto 
Una malinconia che sembra amore. 
Poi s'imbionda la spica 
Al povero colono: 
Sotto i cocenti lampi 
Di Febo s'affatica 
Il falciator pe' campi: 
Di plaustri le callaie 
Stridono: e, misurato alle promesse, 
Ne' portici e per l'aie 
Splende l'or della messe. 
E tutto questo è dono 
Dell'olimpica Figlia, 
Che va pellegrinando 
Sotto le terre; e non so come o quando 
Dolcemente scompiglia 
I piccioletti germi e li conduce 
Fuor nella rosea luce. 
Indi s'avanza il dio 
Che aggioga al carro i pardi: 
E fiamme dagli sguardi 
Lancian Polinnia e Clio, 
Mentre il sacro licor ferve e s'affina 
Nell'anfora divina, 
E coi corimbi in testa 
Menan le Madri sul Pangèo la festa. 
Poi gialliscon le foglie 
E cadono: s'accampa 
Di fuor la buffa: e nelle interne soglie, 
Mentre luce la vampa 
Sui vasti focolari, 
Novellando si va di cose arcane. 
Ha già varcato i mari 
La rondinella: senza voi rimane 
il pecchietto alle siepi e senza grido 
La cingallegra al nido: 
Con suo mugolo roco 
S'aggomitola al foco 
Il can sull'ora bruna 
O all'uscio, per entrar, raspa e si lagna; 
Fiori di gel sui vetri 
Ricama il verno: e gli alberi alla luna 
Paiono bianchi spetri 
Per l'immensa campagna. 
Ohimè dagli occhi miei 
Per clivo per riviera 
Ove fuggita sei 
Fanciulla Primavera? 
Come attesi l'amante al tempo verde 
Attendo io te: né perde, 
Benché tu mi sia tolta, 
La sua speranza il cor. Più d'una volta, 
È ver, tu, giovinetta 
Primavera, non vieni a fiorir l'anno: 
Ma quando se ne vanno 
L'ultime nevi e spunta 
La prima violetta 
Cantan tutte le terre: «È giunta, è giunta 
La Fanciulla gioconda!» 
E il riso e il canto abbonda 
Per l'acque immense e per gl'immensi cieli, 
E in radiosi veli 
Sovra il Saturnio altare 
Sin la tacita e grande Iside appare. 

O Primavera, eterna 
Per l'arcana natura 
E sì breve per noi, chi ti governa 
il virgineo pensier? chi prende in cura 
Le tue sembianze belle? 
Da qual poter tu mossa 
Vieni beata e vai? Forse tu vivi 
Al di là delle stelle, 
Al di là della fossa 
E in quel campo fiorito 
A te ci attendi privi 
Di fastidio e dolor schiatta immortale? 
Che in verità non vale 
La poca ora di qua tanto infinito 
Delirar di dottrine e di speranze. 
E queste ambigue stanze 
Che per antico danno 
Abitiam colla Morte, un dì saranno 
Trasfigurate in una 
Primavera senz'ombra e mutamento, 
Ove né sol, né luna 
Né mar d'acque, né vento 
Né nulla agiterà nostro intelletto, 
Tranne il proprio diletto 
D'amar senza confine. 
Primavere divine, 
Io vi sogno sovente: e il sognar mio 
Fa che talor né invano 
Son primavera anch'io: 
E con gorgheggio arcano 
Qui nella mente il rosignol mi geme, 
Qui nella mente mi tremola il fiore, 
E una fresc'onda preme 
E una fresc'aura il core; 
E a quanto ascolto e miro 
Di grande e di gentile  
Con infinita voluttà sospiro 
Come a un eterno Aprile.

(Da "Iside", Tipografia del Senato, Roma 1878)




SPUNTA IL MATTINO E L'ALBA È SCOLORATA
di Igino Ugo Tarchetti (1839-1869)

Spunta il mattino e l'alba e scolorata,
Sul salice novello
Il passero dall'ale
Si scote indolenzito la brinata,
Tace la valle e tacciono gli steli,
Fischiano i venti e le recenti gemme
Stillan di pioggia al ritornar de'geli:
E intanto nel cespuglio e nel roveto
Un mesto fior si schiude,
Si schiude una viola.
La viola bruna — il fior di sepolcreto.
Oh che sì mesta fossi
Nel libro di lassù scritto non era,
O mattin di natura, o primavera!

Del quinto lustro appena
Dolorando così volo su l'ale,
E una cura profonda,
E un avido desire
Smanioso della tomba il cor mi assale.
Delle deserte stanze
Apro le imposte e miro
La soffrente natura,
E nell'appeso speglio,
Le disfatte sembianze,
Che il gelo del dolor strusse repente.
Pur gioventù mi arride e in ciel non eri
Certo così segnata
Di precoce vecchiezza,
O mattin della vita, o giovinezza!

Qual fato dunque, qual terribil fato
Ha le stabili leggi
Di natura mutato?
Stille di pioggia e gemme disseccate,
Poveri fior recisi,
Vergini volti e guancie giovinette
Di lacrime solcate...
Tale il mondo affatica e mi assecura
Di rapida rovina
Un'arcana sventura;
Né a te fu dato, a te, stagion novella,
D'intatti fiori ornarti;
Né a te di gioie assaporar l'ebbrezza,
O mattin della vita o giovinezza!

(Da "Disjecta", Zanichelli, Bologna 1879)




PRIMAVERA
di Arturo Graf (1848-1913)

Torna l’aprile e si rinnova il mondo,
E tutta un riso la natura appare:
De’ primi fiori inghirlandate, o care
Fanciulle, il crine inanellato e biondo.

Torna l’aprile ed in leggiadre gare
Apre natura il suo spirto profondo:
Sciogliete, o care vergini, a giocondo
Inno le voci armoniose e chiare.

Esultate, esultate al dolce orezzo.
Ché a voi s’addice e a vostra età fiorita,
Obblivïosa di una certa sorte:

Non a me, cui dà noja e fa ribrezzo
Questo rigoglio di novella vita
Intesa solo a preparar la morte.

(Da "Medusa", Loescher, Torino 1880)




VERE NOVO
di Corrado Ricci (1858-1934)

Tornò la primavera — anche a la gronda
del tetto mio la rondine è tornata,
pei tramiti dei monti sprigionata
corre a le valli spumeggiando l'onda.

Tornò la primavera ed ogni sponda
d'erbe e di lieti fior s'è già adornata,
come il sorriso de la donna amata
di gioia un'aura mite il cor c'innonda.

Fin da le tombe sconsolate e sole
salutano gli estinti il nuovo aprile...
sono i saluti loro erbe e viole;

e al sorriso del sole, a l' infinita
gioia de la stagion primaverile
nel mio povero cor torna la vita!

(Da "I miei canti", Zanichelli, Bologna 1880)




PRIMAVERA RITORNA 
di Paolo Emilio Castagnola (1825-1898)

Primavera ritorna. A la campagna
I nuovi fiorellini in su lo stelo
Semidischiusi olezzano; amorosa
De la rugiada, l'erba ecco germoglia,
E i prati ammanta e le colline; i sassi
Ricopre il musco; su 'l nodoso tronco
Inaridito dell'antica querce
S'inerpica la vite e rigogliosa
Circonda e avvinghia l'arbore cadente;
S'intrecciano fra loro i nuovi rami
Onde è più densa la foresta, e l'ombra
Abita sempre sotto le frondose
Volte, che un soffio sussurrando muove.
Primavera ritorna. A l'armonia
Che si spande ne' campi, a la serena
Aria che scherza in fra le trecce sciolte
De le vezzose forosette e increspa
Lo specchio, ov'elle a rimirarsi stanno,
E al suon de le zampogne e al vario grido
Melodioso de' liberi augelli
La più soave voluttà s'infonde
In tutto quanto ha vita. Primavera
Coronata ritorna. Al suon dell'Ave
La villanella dal vivace sguardo
E dai bruni capei siede sul margo
D'una fontana, e il fascio ond'ella è carca
Toglie dal capo, e respira, e fa il segno
Di santa croce, e resta. E poi d'intorno
A un arbore centenne a intrecciar danze
Va con l'altre compagne al poco e incerto
Lume, onde l'aere a vespro anco rifulge.
Poi, quando l'astro de la notte imprende
il placido viaggio all'orizzonte,
rimoto al bosco l'usignolo canta
il lamento d'amore, e il garzoncello
Note anch'egli d'amor tragge al liuto.
Primavera, ecco, leggiadra ridente,
La terra e il ciel ritorna ad abbellire!
O arcana possa di natura! o degna
Opra d'Iddio sparger benigno e largo
Di tante viste lusinghiere e adorne
Questo che è pure esiglio! e dar che umile
Pianta non sia, né vermicciuol, né bianco
Lapillo e nero, né piuma o vapore,
Che nel mirabil tutto, in così varia
Catena delle cose interminata,
Non ripercuota in sé raggio di bello.

(Da "Poesie", Loescher, Roma-Torino-Firenze 1882)




SOGNO D’UNA NOTTE DI PRIMAVERA
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

Tu discendi con pompa orientale
giù pe’ i lucidi gradi; ed una schiera
di femmine ti segue, per la nera
scala raggiando la beltà nivale.

Verso la terra, in atto di preghiera,
tu protendi le braccia; ed a ’l segnale
da le bocche mulièbri agile sale
il cantico a la nuova primavera.

Si muovono con lento ondeggiamento
le teste a ’l ritmo, e su per l’aria aperta
in lontananza il pio cantico spira.

Odesi, poi che il gran clamore è spento,
la lunga scala d’ebano, coperta
di femmine, vibrar come una lira.

(Da "Isaotta Guttadauro ed altre poesie, La Tribuna, Roma 1886)




PRIMO VERE 
di Giosuè Carducci (1835-1907)

Ecco: di braccio al pigro verno sciogliesi 
ed ancor trema nuda al rigid'aere 
la primavera: il sol tra le sue lacrime 
limpido brilla, o Lalage. 

Da lor culle di neve i fior si svegliano 
e curïosi al ciel gli occhietti levano: 
il quelli sguardi vagola una tremula 
ombra di sogno, o Lalage. 

Nel sonno de l'inverno sotto il candido 
lenzuolo de la neve i fior sognarono; 
sognaron l'albe roride ed i tepidi 
soli e il tuo viso, o Lalage. 

Ne l'addormito spirito che sognano 
i miei pensieri? A tua bellezza candida 
perché mesta sorride tra le lacrime 
la primavera, o Lalage? 

(Da "Terze odi barbare", Zanichelli, Bologna 1889)




A L'ARRIVO DE LA PRIMAVERA
di Girolamo Ragusa Moleti (1851-1917)

Poi che la riva sacrò la reduce
Iddia d'un' orma, sentir l'imperio
Del Nume gentile le siepi,
E commossi già spuntano i fiori

Luccican l'acque fra il verde, cerulo
Sorride il cielo da l'alto e mandano
Gli augelli festanti il saluto
A la Dea che invocata ritorna.

Passano i bovi per gli alti pascoli
Lenti brucando; senton ne l'umide
Gramigne i sapori dei primi
Succhi, e leccan le grosse gengive.

Dal monte al piano discende un alito
Caldo di vita: lo sente e copresi
Di verde ogni forra; sui nidi
Provan l'ali i più giovani augelli.

Odo i nitriti gai de le libere
Cavalle al piano scorrenti; destansi
Già gli echi a canzoni giulive,
Ruba il vento profumi ove passa.

Solo un gigante cacto dei zefiri,
Che l'erba nova muovon, non curasi;
Coperto di spine non sente
De la giovine Iddia la presenza.

Le farfallucce, passando, sparlano
II mostro; i gigli più bianchi, il popolo
De l'api, i pavoni, gli augelli,
Le danzanti libellule, i rivi:

«Perchè non ami? perchè, gli dicono,
«Pur tra le fitte spine e gli aculei
«Un fiore non dai? Primavera
«Regna ovunque: gentile diventa».

Ode le voci de le libellule,
De le farfalle che sghembe volano,
Ed ode le voci dei fiori.
Non risponde, ma aspetta il bel cacto.

Aspetta un'altra Dea meno gelida
Il bel gigante; non egli è facile;
Ei mette assai tempo a fiorire,
E non ama che solo una volta.

(Da "Intermezzo barbaro", Zanichelli, Bologna 1891)




LA MUSICA SONORA
di Domenico Oliva (1860-1917)

La musica sonora
Della piova notturna
Scoppia traverso le foglie ch'esultano:
Spesso e profondo è il popolo di foglie.

Questa piova notturna
Ha un ritmo carezzevole
(Spesso e profondo è il popolo di foglie)
E al cor sen viene la canzon sonora.

È primavera: musica
Nell'aria, nelle foglie,
Nell'anime! Ed in te canzon sonora
Vaga si fonde fantasia notturna.

Oh fantasia di foglie,
Oh fantasia sonora,
Cosa divina, profonda, notturna!
Aman le donne ed i poeti sognano!

Spento il lume, in notturna
Precipitati tenebra,
Sognare e amare! Musica di foglie
I nostri baci accompagni sonora:

E dal popol di foglie
Profondo e spesso vengano
Saluti, inviti, sorrisi, sonora
E volitante pleiade notturna.

Piova, piova notturna,
Piova, piova, sonora;
Ridi, piangi, sospira, ilare e mistica!
Spesso e profondo è il popolo di foglie.

(Da "Il ritorno", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1895)

giovedì 13 marzo 2014

"Eros" di Gina D'Arco




Nel 1896, presso l'editore Forzani di Roma, uscì un volumetto di versi intitolato Eros, la cui autrice risultava essere tale Gina D'Arco: poetessa sconosciuta a tutti anche perché inesistente. Dietro tale nome infatti si celava il più famoso poeta romano Domenico Gnoli (1838-1915), che già allora aveva pubblicato alcune importanti opere poetiche come Odi tiberine (1879) e Nuove odi tiberine (1885), ma al suo esordio nella letteratura, quando diede alle stampe un libro di Versi (1871), si era nascosto dietro lo pseudonimo di Dario Gaddi. Vi era quindi una recidività da parte dello Gnoli all'uso di nomi falsi per la pubblicazione delle sue poesie; tale usanza si sarebbe ripetuta clamorosamente anche nel 1903: in occasione dell'uscita del famoso volume Fra terra ed astri, che fu ritenuta un'opera in versi nuova e rivoluzionaria, il cui autore, seppur misterioso, sembrava essere un giovane esordiente di cognome Orsini e di nome Giulio. Sorprendente e nello stesso tempo deludente fu la scoperta che dietro allo pseudonimo di Giulio Orsini, ancora una volta si celava proprio lui: Domenico Gnoli, che, già ultrasessantenne, di fatto aprì la nuova strada della poesia italiana del XX secolo. Non soddisfatto, Gnoli continuò a firmarsi Giulio Orsini anche nella sua successiva opera: Jacovella (1905), ma ormai la sua identità era stata ampiamente scoperta.
Ritornando ad Eros, trattasi di un volumetto di 26 pagine che contiene in tutto 10 poesie precedute da una breve prefazione intitolata: Al lettore in cui l'autrice spiega il motivo per cui ha deciso di pubblicare le sue "poesiole".
Eros fu ripubblicato con varianti da Domenico Gnoli nel suo volume riepilogativo Poesie edite e inedite (1907), presentandolo con la seguente indicazione:

Dal volumetto Eros di Gina D'Arco (Roma, Forzani 1896) e da periodici.

Delle 10 poesie presenti nel libriccino originale si rileggono: Vita nova (col titolo Vita nuova), Tivoli, Veglia, Abissi e Tristezze. Scompaiono invece le altre, ovvero: A te solo, Aprile, Voliamo, Sempre e Malìa. Vengono aggiunte infine: Il vecchio, La scala e Il lamento d'una mummia.
riporto di seguito, per concludere, una delle più belle poesie di Eros.



VEGLIA

Saliva dai tetti, recinta di pallido nimbo,
con tacito passo la luna,
con passo di madre che mova a spiare se il bimbo
riposi a la tepida cuna.

Ed io sul balcone vegliavo, che il sonno da' stanchi
miei occhi è bandito :i pensieri
novelli d'amor senza posa l'inseguono a' fianchi,
qual muta d'alati levrieri.

Un'alta fenestra, sui tetti, splendeva lontano
lontano. Chi veglia a quest'ora?
È forse una povera madre cui stanca la mano
si piega sui lini, e lavora

lavora pel pane de' figli? È un convegno d'amanti?
Là dentro è un infermo? un morente?
Si trama là dentro un delitto? son risa? son pianti?
Ascolto, ma nulla si sente.

Sui tetti dormenti, recinta d'un nimbo leggero,
la pallida luna salìa:
confuso vegliava de l'alta fenestra il mistero
con quello de l'anima mia.


domenica 9 marzo 2014

"Arie paesane" di Sandro Baganzani



Pochissime persone probabilmente oggi sanno chi era Sandro Baganzani (Verona 1889 - ivi 1950), poeta italiano che trovò il suo breve e circoscritto periodo di gloria tra il 1920 ed il 1924, quando cioè uscirono i suoi libri più importanti: Arie paesane (1920) e Senzanome (1924). Baganzani esordì con liriche dialettali (si ricordano i volumi Ciari e scuri, 1907 e Da l'album de Nina, 1911) ma fu apprezzato di più per i suoi versi in lingua che denotano una chiara derivazione dalla poesia pascoliana e crepuscolare. Analizzando brevemente il primo dei due volumi sopra citati, Arie paesane uscì presso l'editore Taddei di Ferrara: è un libro di 116 pagine che contiene 41 poesie le quali, a parte la prima (intitolata Prologo) e l'ultima (Allegro ma non troppo), sono raggruppate nelle seguenti sezioni: NOSTALGICHE - ALPINE - PAESANE - VAGABONDE. Leggendo la prima sezione si nota subito la prima lirica: Impressione invernale, che descrive un paesaggio freddo e senza vita: «Branchi di corvi / indolenti / spiegano allora il volo stanco / come uno sgorbio nero / nella sinfonia / del bianco. / / E non si senton cantare / campane: anima viva / non si vede camminare. / È il villaggio della Morte?». Accorata è piena di una inconsolabile, solitaria malinconia che il poeta e la sua moglie avvertono con intensità per la prematura scomparsa di una figlioletta, la poesia descrive gli umori della famiglia di Baganzani in una sera rigida d'inverno trascorsa in casa: «Tutta la casa è piena / dell'Assente. / Hai acceso la lampada / per la bambina morta? / Davanti il piccolo altare / i fior di calicanto / spandono quella loro / sottile fragranza / d'inverno di freddo». Tre rose evidenzia riferimenti alla poesia dei crepuscolari e, soprattutto, di Corrado Govoni: «Le monache passano / sotto i viali / con le loro bianche cornette / come uno sbattere d'ali. / Le chiesine di campagna / parate / come per una sagra? / I rondoni che riempiono i silenzi / dei cortili solitari? / Le stelle piccoline / come i chicchi dei rosari? / Chi canta?». Poesia agreste è invece Ottobrina: «I bovi dal passo sbilenco / ora vanno in cadenza / dietro un canto vendemmiale. / Cigola il carro greve dei tini / per lo stradale. / I passeri frullano / tra i robini selvatici».
La seconda sezione contiene alcune poesie dedicate al corpo militare degli alpini, di cui il poeta stesso aveva fatto parte. Qui i versi migliori di Baganzani nascono dalle rare ed estasianti sensazioni provate grazie agli spettacoli della natura, seppure in un contesto "duro" com'è quello della vita di trincea: «Oh incanti / di albe di sere! / siepi lontane / con l'orto di dalie / di girasoli! / Campi ondanti di grano: / velluto di prati: / casette tra il verde: / campane campane campane!» (da Un cantore).
La terza sezione è decisamente la più intima del libro, vi sono racchiusi versi piuttosto malinconici che riflettono le "piccole cose" presenti nel paesino dove il poeta viveva, a tal riguardo mi sembra che anche alcuni titoli delle poesie Chiesetta di Santo Nicola, Pozzetto in abbandono, Passeggiata minima, Alberghi di campagna) siano significativi; ecco alcuni versi di Mistica: «Un convento. / Un altro convento. / Un chierico violetto / si perde / dietro un portichetto oscuro. / Pende da un muro / un lampadario d'oro. / Negli stalli del coro / vi sono dei monaci / con gli occhiali / a leggere gialli messali? / o una monachina / in un orto / morto / coglie nelle aiuole / l'ultime rose, al sole?». Si differenziano dalle altre, le ultime due poesie che assumono toni fortemente drammatici e commoventi nel ricordare i lutti gravissimi che colpirono la famiglia di Baganzani, il quale perdette due figli ancora in età infantile; particolarmente commovente è la seconda, intitolata Le scarpine: «Ci ài lasciate le tue scarpine: / ànno un granellino di ghiaia / sotto la suola. / Non camminano più. / sono morte come sei tu. / Sono come due alucce / che non battono più. / Il tuo piedino nudo / che non à bisogno delle scarpine / per le stradine del paradiso!...».
L'ultima sezione di Arie paesane è composta da poesie di vario genere; alcune descrivono semplici paesaggi, altre parlano delle 'piccole cose' già rese celebri dai poeti crepuscolari circa un decennio prima: «Quante cose belle, quante / cose brutte / nel magazzino del cuore, / ammucchiate tutte come / balle di mercanzia / con sopra una etichetta uguale: / Malinconia! / Roba che non si svende» (da Vagabondari), altre ancora sono evidentemente ispirate dai versi di poeti che Baganzani sicuramente stimava come Corrado Govoni: «Tornano le vacche / dai campi, / i camini non fumano più, / sulle porte i contadini parlano / delle stagioni, / le stelle filanti cominciano a cascare, / nell'aria è un odore di unghie bruciate / di foglie passate, di stalla: / il maniscalco à chiuso bottega, / il lume rosso della farmacia / è come un occhio di magia, / e un pianoforte suona / "il Viandante" / in fondo un giardino oscuro» (da Belmonte) e Diego Valeri: «Nulla ti voglio dire: / tu non dirmi nulla. / Guardiamo in silenzio calare / la luna sul borgo che tace (da Serenità); a volte si respira un'atmosfera di tristezza e di malinconia disperata, come in Lungo l'argine: «Perchè / quando stassera sarà buio / nessuno mi accenderà il lumino: / nessuno mi si farà vicino: / io sarò più meschino / del venditore che vanta / le leccornie di zucchero: / e avrò certo paura / di vedermi guardare nello specchio / da un altro / ormai vecchio / e solo!». Chiude la raccolta Allegro ma non troppo nei cui versi iniziali Baganzani, a conferma della sua vicinanza alla poetica crepuscolare, dichiara, scrivendolo a mo' di epitaffio: «Qui giace / in pace / il cuore mattoide d'un poeta / da niente».